Depistaggio di Stato?
Dietro la richiesta di revisione del processo per l’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta
“Cortese Signora Agnese e figli, Signora Rita e figli, signor Salvatore e figli,
sono Scarantino Vincenzo che Le scrive e mi creda non è una cosa facile per me essendo con uno stato d’animo difficilissimo. (…) Io non avevo nessun motivo di depistare le indagini ne tanto meno ne avevo voglia, ma per la mia fragilità nelle decisioni è diventata un’arma infallibile per chi invece ne aveva di motivi e di voglie per depistare tutto. Fatto sta che hanno vinto loro. Le indagini sono state depistate. Infatti oggi sono rimasto un uomo solo e abbandonato da tutta la famiglia e da tutti. Sono sicuro che quel poco che fino a ora ho scritto non darà mai la rispettabilità dovuta al dottor Borsellino. Lui è stato tradito dalla mia inconsapevole fragilità, ma anche da chi volutamente ha fatto capire altro. Detto tutto ciò vengo da voi a chiedervi umilmente perdono per quanto accaduto e per il coraggio che non ho mai avuto a fermare quella macchina di disobbedienti e di menti più qualificate della mia. Vi chiedo perdono per tutto e vi ringrazio per essere stati la fonte di un coraggio a me sconosciuto il quale da oggi mi libererà da un peso terribile. Perdono”.
E’ il 2 ottobre del 2010 quando Vincenzo Scarantino scrive questa lettera dal carcere di Velletri. A distanza di un anno, il 14 ottobre 2011, le agenzie diramano la notizia che il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, ha avanzato alla Corte di Appello di Catania l’istanza di revisione dei processi per la strage di via D’Amelio denominati “Borsellino uno” e “Borsellino bis” per alcuni imputati già condannati in via definitiva. Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, ex uomo d’onore del mandamento di Brancaccio, sono risultate attendibili a tal punto da scardinare la versione fornita da Scarantino rivelatosi un collaboratore di giustizia falso e soprattutto “imbeccato”. La richiesta di sospensione della pena e di revisione riguarda quegli stessi imputati condannati per strage sulle dichiarazioni di quest’ultimo: Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Gaetano Murana, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino (già condannati all’ergastolo) e Salvatore Candura, lo stesso Vincenzo Scarantino, Giuseppe Orofino e Salvatore Tomaselli (condannati a pene fino a 9 anni). Per Orofino, Candura e Tomaselli l’istanza riguarda unicamente la revisione del processo in quanto i tre hanno già scontato la pena per i reati in ordine ai quali era stata ritenuta la loro responsabilità.
La lunga attesa
Le revisioni dei processi “Borsellino uno” e “Borsellino bis” si faranno. Ma non subito. La decisione della Corte di Appello di Catania si basa su un orientamento giurisprudenziale. Per poter celebrare un nuovo dibattimento occorre un’altra sentenza definitiva che accerti responsabilità di altre persone e che quindi contrasti con il primo verdetto. Al momento si resta quindi in attesa di una sentenza di Cassazione relativa alle nuove ricostruzioni di Gaspare Spatuzza, così come quelle di Fabio Tranchina, sull’eccidio del 19 luglio 1992. La richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena viene invece accolta immediatamente per: Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino e Gaetano Murana. Tutti liberi. Anche per Vincenzo Scarantino si aprono le porte del carcere, ma su di lui viene attivato un servizio di protezione lontano da Palermo per evitare prevedibili vendette mafiose nei suoi confronti. Gaetano Scotto, l’uomo di Cosa Nostra legato ai Servizi, resta invece in carcere per scontare il residuo di pena di due condanne definitive.
Mafiosi, pentiti e depistatori
I principali protagonisti delle vecchie e nuove indagini sulla strage del 19 luglio 1992 si ritrovano uno dopo l’altro nelle pagine scritte dai magistrati nisseni. A partire da Salvatore Candura che per primo accusa Vincenzo Scarantino di essere colui che lo ha incaricato di rubare la fiat 126 convertita in autobomba. Nelle carte vengono successivamente riscontrate le dichiarazioni del pentito Fabio Tranchina che indica Giuseppe Graviano come colui che, nascosto in un giardino dietro un muretto in fondo a via D’Amelio, avrebbe premuto il telecomando collegato all’autobomba. In base alla ricostruzione di Tranchina e ad altre prove raccolte dagli investigatori cade quindi la pista del Castello Utveggio quale possibile luogo dal quale i killer di Borsellino avrebbero premuto il telecomando. Al posto del castello torna sotto i riflettori la pista del palazzo dei fratelli Graziano, situato di fronte a via D’Amelio, dalla cui terrazza il mafioso di Brancaccio, Fifetto Cannella, avrebbe avvisato Giuseppe Graviano dell’arrivo di Borsellino. La figura del boss di Brancaccio e dei suoi collegamenti con Forza Italia viene passata ai raggi X al pari di quella di Arnaldo La Barbera, allora capo del pool che investigava sulla strage di via D’Amelio (deceduto nel 2002). Contro di lui e contro altri tre componenti della sua squadra si scagliano oggi Scarantino e i suoi due compari Candura e Andriotta che li accusano di violenze e pressioni per obbligarli a recitare una parte all’interno di una pista già prestabilita.