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Depistaggi eccellenti da Mattei a Impastato

Alcamo Marina, 26 gennaio 1976. La cronaca ufficiale ci consegna la storia di due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, che durante quella notte vengono barbaramente uccisi, dagli armadi scompaiono divise e armi. Verranno scoperti l’indomani, la mattina del 27 gennaio di 26 anni addietro, da una pattuglia di Polizia che scorta il segretario nazionale dell’Msi, Giorgio Almirante. In un mese i carabinieri del colonnello Russo risolvono il caso. Viene cancellata l’ipotesi terroristica, poche ore dopo la scoperta dei carabinieri ammazzati viene diffuso un documento di rivendicazione da parte delle Brigate Rosse, nel giro di qualche ora altro volantino, le “vere” Brigate Rosse dicono che con la morte dei due carabinieri, “per i quali non avrebbero comunque versato lacrime”, non c’entrano nulla. Ad Alcamo nel frattempo è arrivata una squadra di carabinieri antiterrorismo. Sono loro gli autori della svolta.

A uccidere i due carabinieri è stata una banda di balordi. Dapprima vengono fermati Vincenzo Vesco, una sorta di anarchico alcamese, questi confessa e fa i nomi dei complici, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli, minorenni, Giuseppe Gulotta e Giovanni Mandalà. Vesco si uccide durante il processo di primo grado, si ammazza in cella, impiccandosi, ci riesce sebbene sia monco di una mano. Gli altri davanti ai giudici gridano la loro innocenza, ci hanno estorto le confessioni dicono. Non vengono creduti e però l’iter processuale è difficile, se per giungere a sentenze definitive bisognerà vedere lo svolgimento di ben nove dibattimenti. L’ultimo dei quali si chiude con le condanne, nel frattempo è morto anche Mandalà, Ferrantelli e Santangelo sono fuggiti in Brasile da dove l’Italia prova a farli estradare ma non ci riesce, l’unico a finire in cella è Giuseppe Gulotta.

Un giorno arriva la confessione sofferta di un ex brigadiere dell’arma, il napoletano Renato Olino. Saltano fuori i verbali di due pentiti, Leonardo Messina e Peppe Ferro, di colpo lo scenario cambia. Non furono balordi ad uccidere quei carabinieri e altri carabinieri hanno fatto di tutto perché sembrasse che fossero loro. Spunta anche un altro pentito, Vincenzo Calcara, era in carcere quando ci entrò Vesco, ha raccontato che Vesco fu ucciso da mafiosi in carcere per ordine di mafiosi liberi. Calcara ha raccontato che all’epoca era detenuto a San Giuliano ed ebbe ordine dal campobellese (avvocato prestato alla mafia, esperto di narcotraffico) Antonio Messina di lasciare da solo Vesco. «Fu ucciso da un mafioso con la complicità di due guardie carcerarie» ha detto Calcara. E l’alcamese Peppe Ferro: «Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati…erano solamente delle vittime…pensavamo che la strage era opera di servizi deviati e mafia».

Ce n’è di carta bollata per fare riaprire il caso. E questo accade. La Procura di Trapani riapre il fascicolo sulla strage di Alcamo Marina e ne apre un altro per le torture subite da Gulotta e compagni. Olino fa i nomi e marescialli dei carabinieri finiscono sotto inchiesta per le torture e le confessioni estorte. Finiscono sotto intercettazione e in poche ore salta fuori la verità. Dopo la notifica degli avvisi di garanzia, si sentono i loro familiari commentare l’accaduto, e la Procura di Trapani (indagini coordinate dal pm Andrea Tarondo) apprende così che quello che accade nella sperduta caserma di Sirignano, nelle campagne tra Alcamo e Camporeale, era addirittura a conoscenza dei familiari dei carabinieri che fecero quegli interrogatori, facendo bere litri e litri di acqua e sale a quegli sventurati, o stimolando gli organi sessuali con le scariche elettriche dei telefoni da campo, ottennero le confessioni per chiudere, in fretta, quelle indagini sulla morte di Apuzzo e Falcetta. Sentiti in Procura a Trapani i carabinieri finiti sotto inchiesta si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Da rischiare oramai avevano ben poco, i reati a loro contestati nel momento in cui sono stati scritti nel registro degli indagati erano da tempo oramai in prescrizione. Il silenzio la migliore cosa dunque per Elio Di Bona, 81 anni, Giuseppe Scibilia, 70, Giovanni Provenzano 83, Fiorino Pignatella 63. Facevano tutti parte di una squadra comandata dal colonnello Giuseppe Russo, l’ufficiale dei carabinieri che indagando sugli appalti gestiti dalla mafia nel palermitano fu ucciso a Ficuzza, nel corleonese, dai sicari di Cosa Nostra, il 20 agosto del 1977.

Messinscena. Sceneggiate. Depistaggi. Confessioni estorte. Il 13 febbraio 2012 la Corte di Assise di Reggio Calabria nel processo di revisione ha cancellato la condanna all’ergastolo per Giuseppe Gulotta. Restituendogli l’incensuratezza.

Perché in quel febbraio del 1976 accadde tutto questo? Perché un mese prima i carabinieri Falcetta e Apuzzo furono barbaramente ammazzati. La Procura di Trapani una pista la sta battendo. C’entra Gladio. I due carabinieri uccisi quel giorno di gennaio del 1976 avevano bloccato sulla strada di Alcamo Marina un furgone che non dovevano fermare, a bordo ci sarebbero state delle armi, e una “pattuglia” di Gladio. Gladio si era installata nel trapanese in quegli anni ’70, quando Stato e Mafia si incontravano nelle zone grigie del paese, dove si nascondevano anche uomini dei servizi deviati e della massoneria.

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