Davide e l’insostenibile leggerezza
Intervista a Davide Di Rosolini, artista modicano prestato alla musica d’autore. Nobiltà e miseria di una vita non come le altre.
«A Roma stavo impazzendo. E poi da quando sono partito mi succede sempre qualcosa: terremoti, alluvioni. Vado a Genova e succede quello che succede, a Torino esondano i fiumi… Cose da pazzi». In effetti mentre gli parlo l’Etna si esibisce in un nuovo fenomeno, ricoprendosi i piedi di pietre e pietruzze. E il cielo minaccia un nuovo temporale. Che vuoi farci, sarà la profezia dei Maya che comincia a bussare. E l’idea della fine del mondo a lui piace: «A me tutto ciò non mi spaventa affatto, ma piuttosto mi diverte», canta in “21 dicembre 2012” commentando le previsioni di tempeste e terremoti. Certo, la prospettiva di affrontare l’apocalisse con la sua vecchia panda rossa non dev’essere un conforto, ma è fatto così.
Davide Di Rosolini è un romanzo, un cartone animato, una sit-com, lo spin off di sé stesso. È un divenire di idee senza nessuna certezza, se non quella della creatività. Si è inventato un tour nazionale, da Modica a Genova a Catania, e ha deciso di attraversare lo stivale a bordo di quella panda in compagnia di un water. E della sua chitarra.
«Non è stato difficile: mi è venuta l’idea e ho inviato dei demo e dei video a locali, circoli, centri sociali… Alla fine ho preso degli accordi, mi sono organizzato col web per vitto e alloggio e sono partito. Poi succede pure che qualcuno mi ospita in cambio della musica. Che so, i padroni dei locali, o affittacamere, o amici…».
È il “TrapanaTour”: ha tirato fuori dalla testa l’idea di un estenuante giro musicale della nazione in cerca del suo quasi omonimo (un parto della sua mente dal quale deve farsi restituire un trapano perduto e al quale lui deve restituire un water) ubicato in quel di Rosolina, nel Lazio, suonando quasi ogni giorno dal 20 ottobre al 26 novembre. Spiega che riesce a mantenersi a forza di paghe, vendendo cd e facendo ‘cappelli’ («ieri ho fatto un cappello di 50 e qualcosa di euri», scrive sul blog creato per raccontare le serate in tempo reale), «però sono già stanco», dice con una voce poco accesa prima dell’esibizione a Cassino.
«Può darsi pure che mi sono preso la febbre, e a suonare potrei non andarci stasera». Mi racconta che presentarsi davanti al pubblico quasi ogni sera in posti diversi, a volte lontanissimi uno dall’altro, è una fatica tremenda, e le strade trafficate delle grandi città lo stressano moltissimo: «Sì ma a volte lascio la macchina da qualche parte e mi muovo a piedi. Io e il mio cesso con le rotelle. Un tassista a Roma m’ha guardato strano».
Ha comprato un navigatore satellitare, a Bologna, che però non gli funziona. E lo stress aumenta. «Quando torno a casa devo riposarmi. Relax assoluto. Ne ho bisogno. E poi non lo so…». Già, per il futuro non lo sa.
Davide Di Rosolini è un buon creativo, ma insieme al cilindro, alla chitarra e a sgargianti giacche accompagnate da foulard improbabili, si porta appresso pure un punto interrogativo. È come se non fosse ancora sbocciato, se stesse cercato una dimensione difficile che gli calzi bene.
A vederlo da spettatore pare che gli manchi ancora qualcosa, l’ultimo pezzo del puzzle. Qualcosa che gli faccia confezionare i pezzi in una struttura adatta a un pubblico maggiore, che faccia brillare quella stessa creatività che l’ha portato a candidarsi come sindaco di Rosolini per dispetto ad un’associazione che aveva fondato e abbandonato: «Avevo un programma allucinante – scrive nella biografia sul suo sito – un po’ per divertirmi e un po’ per una vendetta personale con i ragazzi di “Prospettivadue” che avevano appoggiato un politicante con la speranza di ricevere contributi. Mi andò anche bene, presi più voti di quanti me ne aspettavo. L’associazione chiuse diversi mesi dopo per mancanza di contributi ed io ricominciai a suonare libero».
Suona da quando aveva 14 anni. Ha iniziato come la maggior parte degli artisti che hanno fatto gavetta nei locali, cioè strimpellando dentro casa, aggrappandosi al giro di do di una madre che la domenica andava in chiesa con la musica nella chitarra. La stessa chitarra che è diventata praticamente un prolungamento dei suoi arti. Suona anche il basso, però, e la batteria. L’ha pure insegnata, la batteria, nell’attraversare un’adolescenza dove gli studi non la facevano da padroni. Non come la chitarra.
Uno stile esatto, però, deve ancora trovarlo, e forse è molto vicino alla meta. Scrive brani semplici e dai testi a volte banali, dentro i quali ci mette moltissima ironia, a raccontare con disincanto di donne, Sicilia, amore, corti circuiti adolescenziali, quotidianità. Le sue canzoni ricordano vecchie ballate, giri di accordi senza pretese che avvolgono una voce altrettanto semplice: il pregio sta nell’interpretazione, una tecnica che spesso lo porta a raccontare l’oggetto del brano, a fermare la musica per commentare o raccogliere commenti. Ha qualcosa del cantastorie, ma è ben lontano dall’esserlo.
Certi passaggi ricordano addirittura De Gregori (un tratto di “Pioggia” richiama “Pezzi di vetro”), altri fanno venire in mente il teatro-canzone di matrice gaberiana, altri ancora il sarcasmo un po’ estremo di Ivan Graziani. Quando ci mette dentro la rabbia, però, emerge un passato dove ha suonato molto rock, facendo addirittura l’occhiolino agli Iron Maiden («…e poi lo sanno tutti com’è la mia situazione, e un giorno mi daranno questa cazzo di pensione per l’invalidità» canta suonando la chitarra a mo’ di basso, sleppando sulle corde a ritmo funky), ma non manca la fortissima ironia che lo porta al reggae (è il caso di “Rastaman”), sotto la musica del quale emerge una capacità metrica che pochi sanno adattare alle battute musicali.
A vederlo col cilindro e con lo sguardo appeso a quel punto interrogativo, poi, viene per forza in mente Rino Gaetano. Insomma: è un cantautore a tutti gli effetti, uno che non imita ma crea punto e basta. Lo stile è il suo, sebbene non lo si possa definire con certezza. L’unica certezza che si porta appresso è quella di fare la musica che fa, «perché non mi si può chiedere di fare solo un tipo di canzoni».
Nella chiacchierata che facciamo nel mezzo della sua tournee non nasconde il fastidio che gli monta dentro quando qualcuno prova a mettergli un’etichetta: «È successo, sì, di ricevere una buona proposta per produrre i pezzi, ma quando mi hanno chiesto di fare solo le canzoni romantiche… Non potevo dirgli di sì. Cioè: è come se fossi nel Pd e passassi al Pdl, come se rinunciassi a un pezzo di me».
Già: non si può trovare un compromesso quando uno fa musica popolare. Ma, si badi, non popolare nel senso del tamburello. «Quando uno parla di musica popolare – spiega – viene in mente il tamburello, ma la musica popolare che faccio io è popolare-popolare. Nel senso che è quella che racconta del popolo, della gente. È una musica di tutti i giorni, una musica che si fa facilmente». Per certi versi sarebbe la musica pop nell’accezione più pura del termine, ma non è neanche quella. Indefinita, potremmo dire. O indefinibile. Basta dare un’occhiata alla produzione: “Virus”, “Live in Buscemi”, “Tre quarti d’ira”, “Storie del nostro e dell’altro mondo”, “Musica bardica”, “Il tuo prodotto”, “Travolti da un insolito destino”, “Poco prima della fine”, “Novena”, “Disordine sotto il palco”, “T.R.I.S.”. Album in alcuni casi diversissimi, frutto di registrazioni con svariati musicisti (con quattro gruppi, in coppia e da solista).
Un enorme bagaglio produttivo, che nell’ultimo titolo (sopra sono in ordine temporale) vede una maturazione che promette bene. Eppure è ancora in divenire. Rinunciando alla proposta di produzione ha rinunciato anche a quella che era diventata la sua perfetta metà artistica, e anche metà nella vita: Costanza Paternò.
Insieme a lei aveva dato vita a quello che forse era il progetto più interessante imbracciato in questi anni: “Unduo”. La voce decisa, limpida di Costanza si affiancava perfettamente al disincanto di Davide, alla sue corde vocali senza pretese, e l’affinità artistica non mancava (“Un Duo”, firmata dai due quasi appena conosciutisi, è una ballata molto azzeccata, con al centro un vocalizzo che danza sui tre quarti rimandando a un walzer di campagna efficace, ben reso in uno dei tanti video prodotti in calce ai brani). L’occasione, però, venne accettata solo da Costanza: «A lei andava bene, ma io non potevo dire di sì. Era come negare una parte di me. Cioè: io non sono solo quello. Ci sono pezzi come “Aria sulla quarta corda?” o “Su e giù” che non posso non suonare. E così è finita. È finita pure con lei».
Dopo la collaborazione con Costanza (insieme alla quale ha inciso diversi brani, tra i quali “Travolti da un insolito destino” e “Canzone romantica”, fra i più applauditi nelle sessioni live di “Unduo”, quelli che più degli altri mostrano l’affiatamento e la capacità di farsi spalla a vicenda nei lampi di teatro) ha messo insieme “I casi clinici”, un progetto che vede coinvolta un bel po’ di gente (l’album prodotto vedrà, alla fine, la partecipazione di 111 persone in tutto, molte delle quali hanno preso parte al video di “H.B.C.V.”, girato nell’abbandonato Foro Boario di Modica).
“I casi clinici” è un’altra bella idea, ma Davide da il meglio di sé da solista: i successi raccolti qua e là sono una testimonianza. È vero, si tratta per lo più di un pubblico dai numeri medio-piccoli, frutto dei locali, dei centri sociali che accolgono le esibizioni, ma questo è il limite che ci si augura Davide superi. Quella dimensione precaria che lo vede spesso solo con la chitarra. «La mia idea – dice – sarebbe quella di mettere su un quartetto con chitarra, basso, percussioni e un musicista “jolly”, uno di quelli che ti suona lo strumento giusto al momento giusto. Non so, vedremo quando torno. Certo, è difficile».
Già, difficile. In questo periodo che ipoteca i sogni, poi, pare quasi impossibile. Ma è già arrivato lontano, Davide, e sarebbe un peccato fare avverare quanto scritto sul blog del tour dopo l’esibizione al “Fanfullino”, circolo arci romano: «Ho sempre più dubbi se continuare a fare il cantautore o dedicarmi a qualche altra cosa tipo l’agricoltura o, che so, diventare un progettista di navicelle spaziali o un collezionista di mototrebbie d’epoca…». Sarebbe un peccato, Davide.