Dall’attentato dell’Addaura alla morte di Gioè
La figlia del boss Galatolo racconta
Nel giro di poche settimane ci sono state due notizie che meritano di essere evidenziate nel mondo dell’antimafia.
Una è il pentimento di Giovanna Galatolo, figlia del boss mafioso Vincenzo, ex reggente del mandamento dell’Acquasanta a Palermo condannato all’ergastolo per l’omicidio del generale Dalla Chiesa e coinvolto nel fallito attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone. La seconda riguarda un’inchiesta giornalistica condotta dai colleghi Maurizio Torrealta ed Emanuele Lentini, su Left, riguardo alle indagini sul “presunto suicidio” del boss di Altofonte Antonino Gioé nel 1993.
Un fatto, quest’ultimo, di cui negli anni si è parlato davvero pochissimo.
Era la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993 quando il capomafia venne ritrovato impiccato con i lacci delle scarpe nella cella in cui trascorreva la detenzione nel carcere di Rebibbia. Erano trascorse appena poche ore dalle bombe delle stragi di via Palestro a Milano e delle due basiliche di Roma. Le indagini ufficiali bollano il fatto come un suicidio.
Secondo gli inquirenti di allora con quel gesto il capomafia, che si trovava a Punta Raisi il giorno della strage di Capaci, si sarebbe tolto la vita prima che fosse la stessa Cosa nostra ad intervenire. C’erano intercettazioni in cui il boss aveva parlato dell’ “Attentatuni” ed anche altri riferimenti su possibili attentati al Palazzo di Giustizia di Palermo o contro gli agenti di polizia penitenziaria in servizio a Pianosa. E nella conversazione intercettata dalla Dia c’è anche un riferimento al suo “padrino”, Leoluca Bagarella. “Ma ‘ stu Bagarella cu cazzu si senti? Oh, lo dico per scherzare, ah” disse al telefono.
Ma queste non sono prove schiaccianti sulla morte, e quei fatti non hanno mai convinto troppo. Vi fu anche un’indagine giudiziaria a carico di tre agenti penitenziari che furono indagati per istigazione al suicidio di Gioè, ma vennero prosciolti senza chiarire i dubbi.
Un “suicidio” sospetto
E proprio partendo dal faldone di quest’ultima indagine i due giornalisti sono partiti nell’inchiesta e l’analisi che se ne ricava è una sola: è impossibile che Gioé si sia impiccato. Basta analizzare le foto scattate in quella notte nella cella. I segni della corda sul collo non vanno verso l’alto, come sarebbe lecito aspettarsi se si fosse appeso alla grata, ma verso il basso il che fa pensare più ad una corda tirata da qualcuno.
Anche l’autopsia fornisce diversi elementi che andrebbero chiariti.
Gioé aveva la sesta e la settima costole di destra fratturate “a causa del massaggio cardiaco praticato su di esso”. Singolare che queste siano le ultime due costole della gabbia toracica mentre il massaggio cardiaco si esegue ben più in altro ad altezza del plesso solare. I due giornalisti pongono anche l’attenzione su una escoriazione in fronte a destra e una ecchimosi bluastra al sopracciglio sinistro, come se in quei punti fosse stato colpito. Senza considerare che il rachide cervicale era intatto, e ciò significa che il boss di Altofonte non è morto per la classica strattonata dell’impiccagione.
Sotto accusa anche la ricostruzione dei fatti messa a verbale dagli agenti per cui Gioé si sarebbe ucciso con un rudimentale cappio fatto con i lacci delle scarpe da ginnastica, quindi si sarebbe appeso alla grata della finestra. I giornalisti sottolineano, osservando le foto, “che è impossibile che un uomo possa suicidarsi appendendosi a una grata della finestra sotto la quale è collocato un tavolo che rende impossibile che il corpo rimanga sospeso”.
E se avesse voluto collaborare?
Su quel tavolo che erano stati rinvenuti anche tre fogli scritti a mano da Gioè. “Stasera ho ritrovato la pace e la serenità che avevo perduto 17 anni fa” aveva scritto il boss. Per gli inquirenti un semplice ultimo addio. E se invece dietro a quelle parole vi fosse la volontà nascosta di una futura collaborazione con la giustizia.
Del resto Gioé è anche uno degli uomini chiave della trattativa Stato-mafia, non solo perché a lui si era rivolto il cugino Francesco Di Carlo dopo un incontro “con agenti segreti che parlavano inglese e italiano”, ma anche per quegli incontri con Paolo Bellini, estremista di destra, depistatore, nonché esperto d’arte. Torrealta e Lentini ricordano anche come il magistrato Loris D’Ambrosio, consigliere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sospettava che Gioè fosse stato ucciso.
“Un segreto che ci portiamo appresso”
A Nicola Mancino, in una delle intercettazioni con l’ex Ministro, diceva: “Questa storia del suicidio di Gioè secondo me è un altro segreto che ci portiamo appresso… non è mica chiaro a me questa cosa”. Ai magistrati di Palermo ha poi spiegato: “A me quel suicidio non mi è mai suonato… Insomma che cosa in realtà è accaduto nelle carceri in quel periodo, questa è la vera domanda che mi pongo io al di là del 41 bis… insomma questo suicidio così strano… ecco mi… ha turbato, mi turbò nel ’93 e mi turba ancora”.
Un turbamento che aveva manifestato anche al Presidente della Repubblica Napolitano nella sua lettera di dimissioni (poi respinte) in cui scriveva “vivo timore di essere stato considerato un umile scriba usato come scudo ad indicibili accordi”. Vent’anni dopo dubbi e misteri su quel suicidio tornano a galla. Ed è forse ora di fare veramente luce su questi fatti.
Il fallito attentato a Falcone
Lo stesso vale per il fallito attentato contro Falcone all’Addaura.
La collaborazione di Giovanna Galatolo potrebbe portare a nuove verità. La donna non ha mai avuto ruoli nella famiglia mafiosa ma avendo vissuto all’interno di una delle famiglie più potenti di Cosa nostra negli anni ottanta e novanta. Una scelta pensata, ragionata, presa contro un’intera famiglia che al suo interno non ha mai avuto pentiti.
Circa un mese addietro si è presentata alla squadra mobile di Palermo e ai Francesco Del Bene e Annamaria Picozzi ha detto: “Devo dare un futuro a mia figlia (appena adolescente – ndr), è per lei che ho deciso di fare questo passo, affinché abbia un futuro diverso da quello che ho avuto io”.
I gruppi di fuoco dei corleonesi
E’ da Fondo Pipitone, quartier generale dei Galatolo, che partirono i gruppi di fuoco dei corleonesi composto da Pino Greco a Giuseppe Lucchese, fino ad Antonino Madonia, per uccidere il consigliere istruttore Rocco Chinnici, il segretario del Pci Pio La Torre, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il commissario Ninni Cassarà. E sempre a fondo Pipitone è stato preparato l’esplosivo necessario per l’attentato a Falcone nel 1989.
Giovanna Galatolo, lontana da Palermo assieme alla figlia più piccola, è pronta a raccontare tanti segreti di quel tempo. Anche se il resto della famiglia ha deciso di non seguirla, compresi i due figli maschi e la figlia più grande. Dai pm sono state raccolte dichiarazioni importanti sui vecchi omicidi di mafia, ma anche sui più recenti, come quello di Agostino Onorato, nipote del collaboratore di giustizia Francesco Onorato ucciso a colpi di pistola e il cui corpo venne trovato sul Monte Pellegrino.
“Aveva molestato una ragazza” – ha detto la donna. Altre rivelazioni hanno poi riguardato gli affari del padre che assieme ai fratelli Raffaele e Giuseppe è stato potentissimo anche sul piano economico.
Misteri e buchi neri
Ma le rivelazioni più importanti sono appunto quelle sull’attentato all’Addaura, su cui non ha mai smesso di indagare la Procura di Caltanissetta. Per esempio c’è da capire chi comunicò ai mafiosi che Falcone aveva invitato i due colleghi svizzeri, Carla Del Ponte e Claudio Lehmann, in quei giorni a Palermo per una rogatoria.
Poi l’attentato fallì ma i misteri ed i buchi neri sulla vicenda sono numerosi e sullo sfondo mettono in evidenza i coinvolgimenti da parte dei servizi segreti. E’ anche dalla scoperta di queste pericolose trame che passa la verità su chi ha ucciso Falcone e Borsellino e perché. Misteri di mafia che si confondono con misteri di Stato. Basteranno le rivelazioni di una donna coraggiosa per arrivare alla verità?
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