Da Falcone a Di Matteo
Nino Di Matteo è stato sonoramente bocciato dal CSM che non gli ha riconosciuto i requisiti per diventare sostituto procuratore nazionale antimafia. Requisiti di anzianità e di specializzazione che – sulla carta – lo vedevano prevalere incommensurabilmente rispetto ai suoi tre colleghi prescelti al posto suo. Si capisce che ormai non è più aria
Da tempo l’antimafia non è più un’emergenza nazionale. Da tempo i magistrati siciliani sono stati ricacciati in quel ghetto dal quale, trent’anni fa, uscirono, salvo poi pagare con la vita, personalità come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il CSM trova naturale mettere all’angolo un magistrato come Nino Di Matteo colpevole di rappresentare l’accusa nel processo che si celebra a Palermo, sulla Trattativa fra lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato, e che vede alla sbarra non solo boss di Cosa Nostra ma uomini delle istituzioni e della politica. E non si fa scrupolo, è sempre del CSM che stiamo parlando, di aumentare esponenzialmente l’isolamento di chi ha già totalizzato non una ma più condanne a morte, avvertimenti, segnali e minacce trasversali.
Qualche giorno fa, nell’articolo “Il CSM l’asino che cascò due volte” (in data 18 marzo), scrivendo della decisione che l’organo di autogoverno della magistratura si apprestava a prendere, pur manifestando preoccupazione e scetticismo, auspicavamo un colpo di reni che appariva ancora possibile. Auspicavamo che al Palazzo dei Marescialli non passasse inosservata la delicatezza del “caso Di Matteo” e che potesse ancora trionfare il buon senso. Fra l’altro, alla luce di quest’ultima votazione, suona adesso quasi beffarda la richiesta avanzata al diretto interessato di indicare una qualsiasi Procura d’Italia per andare a lavorare abbandonando Palermo. Viene il sospetto che, adesso, la tenaglia si sia chiusa.
Se Di Matteo vuol salvarsi la vita deve spogliarsi del processo di Palermo. Altre strade non ce ne sono. Il che tradisce una doppiezza del CSM che, se avesse voluto essere coerente sino in fondo, non avrebbe dovuto proporre “bonariamente” a Di Matteo di scappare. Il diretto interessato, intervistato a commento della decisione del CSM, nel dirsi “amareggiato”, ha anche ribadito che non ha alcuna intenzione di lasciare Palermo e il processo della discordia. A questo punto, serve poco continuare ad almanaccare. Vanno però sottolineati tre elementi a “futura memoria”, se l’espressione non risultasse greve visti gli argomenti dei quali stiamo parlando.
1) Sarà educativo e formativo, per le nuove generazioni di magistrati, assistere alle prossime celebrazioni per il 23 maggio e il 19 luglio, quando un’Italia istituzionale e politica senza vergogna ricorderà il sacrificio di quei martiri della lotta alla mafia che furono isolati e delegittimati, esattamente come ora sta accadendo a Nino Di Matteo.
2) Non è chi non veda che si avverte ancora l’onda lunga dei desideri espressi su tutta questa materia e questa vicenda, sino a poco tempo fa, da Giorgio Napolitano, e che hanno fatto di questo CSM un manichino alla dipendenze delle camarille politiche romane.
3) Ci sono ancora spazio, e tempo, e prerogative istituzionali, ai quali può ricorrere l’attuale Capo dello Stato, Sergio Mattarella, per ricucire una ferita tanto vistosa da assomigliare ad uno sfregio di regole, norme e buon senso. Anche a questo servono i “presidenti di buona volontà”.
E in Italia ormai ce n’è un gran bisogno.