domenica, Novembre 24, 2024
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Cosa costruire, con chi?

“Cose che non siamo riusciti a fare, altre che non abbiamo provato…”

Alcune risposte da trovare insieme

Sono passati sette mesi. Sette mesi sen­za alibi, per i siciliani onesti e per i mafio­si. Per i mafiosi, perché adesso non è più que­stione di “Sicilia diffamata” e di “cam­pagna per difendere Catania” ma sempli­cemente di dire se si è con la mafia o con­tro. Per noi antimafiosi, perché adesso non abbiamo più l’alibi della solitudine e del popolo che non ci comprende. Se una cosa s’è vista, in que­sti mesi, è che la nuova ge­nerazione dei si­ciliani è nella sua grande maggioranza net­tamente antimafiosa; e che ce n’è una parte, ancora minoritaria ma già abbastanza nu­merosa, pronta a tradurre subito in azione concreta questa prima ele­mentare intuizio­ne.

“Car Siciliani: sono una ragazza di di­ciassette anni e vi scrivo per dirvi che an­ch’io…”. “Adesso però vorrei dire un fatto che è successo al mio paese e che secondo me è pure un fatto mafioso…”. “Nella no­stra scuola si sono vendute settantacinque copie comunque non eravamo un granché organizzati ma la prossima volta…”. Ecco: cosa dobbiamo rispondere a lettere come queste e a interventi come questi, a questi messaggi? Perché ce ne sono stati tanti, molti di più di quanto avremmo potuto cre­dere – questo, gli assassini non l’aveva­no messo nel conto.

Noi non possiamo rimandare questi ra­gazzi con risposte di generica solidarietà. Noi – noi di questo giornale, intendiamo; ma anche tutti coloro che in una qualun­que maniera si sono schierati su questo fronte – abbiamo un dovere preciso nei confronti di tutti loro. Ci scrivono fiducio­samente, avendo finalmente trovato una bandiera; e fiduciosamente lavorano, ogni volta che gliene si dà l’occasione, a quel poco che osiamo loro affidare. E questa sarebbe la generazione senza ideali, di quelli che non credono più a niente, dei ra­gazzi del riflus­so…

Abbiamo attraversato questi mesi so­stanzialmente da soli. Non nei confronti – tut­t’altro! – dei ragazzi delle scuole, dei magi­strati onesti, della gente “comune”, ma ri­spetto a buona parte delle forze poli­tiche, del mondo giornalistico, delle cate­gorie istituzionali, di tutti coloro insomma che avrebbero potuto materialmente aiutarci, qui ed ora, a continuare il nostro lavoro. Quasi con le nostre sole forze, abbiamo dovuto affrontare difficoltà e ostacoli che sembravano, ragionevolmente, insuperabili; e ce l’abbiamo fatta. Al feroce messaggio della mafia, abbiamo risposto con venti articoli nuovi contro di essa. Tutto quello che hanno potuto ottenere da noi, è stato di fermarci per quattro ore, dalle 22,30 del cinque gennaio alle due e mezza del sei. Un attimo dopo, abbiamo ricominciato. In sette mesi abbiamo prodotto sei nuovi numeri della rivista mensile e tre del tabloid sperimentale; neanche una pagina, crediamo, ne è andata sprecata.

Ma tutto questo non basta. Ci sono cose che non siamo riusciti a fare, ed altre che non abbiamo nemmeno provato a fare: bi­sogna ragionare anche su questo, avere il coraggio di criticarci.

Non siamo riusciti, nella maggior parte dei casi, a contattare adeguatamente le cen­tinaia di luoghi in cui il nostro giornale non era mai stato ma aveva già, per sola forza d’immagine, i suoi amici e i suoi let­tori; non siamo riusciti a far partire prima dell’e­state tutto il piano editoriale che ave­vamo previsto; non siamo riusciti a dare a tutti i nostri amici nel mondo politico e nel sinda­cato un’immagine del nostro lavoro che li aiutasse a superare la miopia con cui, non per sua colpa, la democrazia “set­tentrionale” tradizionalmente percepisce le lotte del Sud. Queste cose non siamo riu­sciti a farle – non era cosa facile, d’altron­de – finora, e cercheremo dunque di riu­scirci nei mesi che verranno.

Per altre cose, il discorso è più comples­so. Per esempio: abbiamo prodotto e diffu­so un foglio speciale per le scuole, e non l’abbiamo fatto da soli ma con l’aiuto di de­cine di ragazzi che col giornale, in teo­ria, non c’entrano per niente. Questo è an­cora “soltanto” un fatto giornalistico, o è già, nel suo piccolo, qualcosa di più? E se un caso come questo indicasse (e ce ne sono altri più minuti) che esiste una richie­sta crescen­te, fra i giovani siciliani, non solo di infor­mazione ma anche, in modo del tutto nuo­vo, di organizzazione?

Ma: cosa significa parlare di organizza­zione nel 1984? E soprattutto: chi deve par­larne, che deve fare le proposte concre­te per dare un senso a questa parola? Noi, i ra­gazzi che hanno lavorato con noi, i no­stri “lettori”, tutti quanti insieme? E anco­ra: organizzarsi per fare cosa? Solo per diffondere un giornale, o per qualcosa di più? E “come” organizzarsi? Ha ancora un senso pensare a un centro che spieghi le cose e una periferia che le esegua, o è già possibile lavorare insieme in maniera più collettiva? E, in fondo a tutte queste domande: è davvero possibile sapere già ora cosa vogliamo costruire e dove arrive­remo, o è meglio partire con pochi e con­creti obbiettivi per scoprire insieme, strada facendo, tutti gli altri?

Tutto ciò non ha niente a che vedere, evi­dentemente, con la “politica” dei candi­dati e dei partiti; forse, con quella più pro­fonda e civile – ed anche più solida e reale – che, nei momenti di crisi, emerge diretta­mente dal crescere delle esperienze indivi­duali e collettive. Noi attraversiamo, rite­niamo, uno di questi momenti e non pos­siamo ve­nir meno a nessuno dei nostri compiti ri­spetto ad esso, nemmeno a quelli talmente nuovi da richiederci uno sforzo di fantasia già solo per percepirli. Solo in questo qua­dro, fra l’altro, è possibile dare un senso reale alla nostra stessa funzione “tecnica” e professionale, che rischia di­versamente di diventare una umanissima ma isolata testi­monianza e non uno stru­mento di effettivo cambiamento della real­tà esistente.

Proposte concrete? Non ancora: piutto­sto, due campi di ricerca su cui bisognerà ragio­nare, tutti insieme, nei prossimi mesi. Pri­mo: come può essere un giornale popo­lare siciliano, chi può mettersi insieme per far­lo, che iniziative concrete possono ag­gregarsi attorno ad esso? Secondo: come uti­lizzare fino in fondo, in questa prospet­tiva, un luogo d’incontro come l’Associa­zione dei Siciliani di cui s’è parlato nei mesi scor­si; come far sì che a raccogliersi in essa non siano solo gl’intellettuali già impegnati ma un’intera generazione di si­ciliani onesti?

Su questi due punti sarebbe utile aprire subito – e questo vuol esserne semplice­mente un inizio – un dibattito ampio e con­creto, non solo fra noi “addetti ai lavori” ma con tutti i nostri amici e lettori. Di que­sti tempi, la cosa più importante per chi vuole davvero cambiare le cose, è sapere imparare: le cose che non sappiamo anco­ra sono davvero tante, e non è detto che deb­bano sempre essere le “persone impor­tanti” a spiegarcele.

I Siciliani

(settembre 1984)

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