“Con Falcone vivo l’antimafia avrebbe avuto altri momenti”
Magistrato antimafia di lungo corso a Palermo, oggi Alfredo Morvillo è Procuratore capo di Termini Imerese
In soli sessanta giorni, la sua vita è stata letteralmente stravolta dalla tragedia. Il 23 maggio ‘92, a Capaci, ha perso la sorella Francesca (anche lei magistrato) e il cognato Giovanni Falcone; il 19 luglio, è stato ucciso il suo amico Paolo Borsellino.
In concomitanza con il ventennale della strage di Capaci lei ha sottolineato che la politica “deve fare pulizia al proprio interno”. Come analizza la motivazione che a tutt’oggi impedisce alla politica di fare pulizia al proprio interno?
Quando Confindustria ha proposto la sua iniziativa in materia di antiracket una buona parte della società civile si è schierata attorno ad essa. Allo stesso modo sarebbe stato molto importante che si fosse schierata la politica, se avesse colto quell’occasione il messaggio per i cittadini sarebbe stato molto forte. Il compito del politico non è soltanto quello di fare le leggi, ma anche quello di mantenere un rapporto con la cittadinanza e fare in modo che i cittadini ricevano dalla politica dei messaggi chiari e di presa di distanza da tutto ciò che ha anche il più lontano “sapore” di mafia.
Il dovere dei cittadini di denunciare tutto ciò che di illecito accade sulla strada, collaborando con l’autorità giudiziaria per l’identificazione dei mafiosi, deve appartenere in primis al modus vivendi dei politici. Che dovrebbero offrire il loro contributo alle indagini quando sono a conoscenza di fatti penalmente rilevanti.
Quali sono i ricordi più nitidi del 23 maggio del ‘92?
I ricordi sono legati al momento in cui siamo andati in ospedale sperando che il dottore Falcone e mia sorella potessero salvarsi. Il dottore Falcone purtroppo è deceduto ben presto, per mia sorella fu fatto un estremo tentativo di intervento chirurgico, ma le probabilità di salvarla erano molto ridotte; lo scoramento da parte di tutti era evidente. Sono dei momenti che non dimenticheremo mai.
Fin dal primo momento si ipotizzò che se il giorno della strage Falcone e sua moglie fossero stati seduti sui sedili posteriori probabilmente si sarebbero salvati. Quanto ha pesato nella sua vita questa ipotesi?
Mah, in tutti gli avvenimenti umani, soprattutto quelli in cui vi sono dei lutti o delle situazioni negative, vi sono sempre delle “coincidenze” in assenza delle quali il destino sarebbe stato diverso. Ovviamente se la macchina fosse stata guidata dall’autista e il dottore Falcone e mia sorella fossero stati seduti dietro sicuramente oggi sarebbero vivi e qui con noi. Le “coincidenze” che consentono il verificarsi di un avvenimento sono sempre tante, la vita è così… Probabilmente lo svolgimento di tante cose sarebbe stato ben diverso con il dottore Falcone in vita. La lotta alla mafia avrebbe avuto dei momenti diversi e certamente la storia sarebbe stata ben diversa. In quel momento c’era ancora in piedi il concorso per la direzione nazionale antimafia. In sede di commissione era stato proposto il dottore Cordova e non il dottore Falcone. Come è noto dopo la morte del dottore Falcone non si parlò più del dottore Cordova. E comunque ora è inutile fare delle ipotesi su ciò che non è stato.
Cosa ricorda dei cinquantasette giorni trascorsi tra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio?
Era un momento di grande tensione. Ricordo che il dottor Borsellino era sempre in contatto con i colleghi di Caltanissetta e veniva informato sullo stato delle indagini sulla strage di Capaci sebbene da procuratore aggiunto di Palermo non ne fosse titolare; perciò se ne parlava spesso anche alla Procura di Palermo. Fu un periodo di emozioni molto intense, di riunioni continue in ufficio, proprio perché le tensioni relative alla strage di Capaci coincidevano con le tensioni interne dell’ufficio in riferimento al procuratore di allora, Pietro Giammanco. Dopo la strage di via d’Amelio in Procura le tensioni furono ancora più forti per le incomprensioni con il procuratore Giammanco. Fu allora che un gruppo di otto Sostituti, tra cui io, scrivemmo una lettera aperta che chiedeva espressamente un cambio al vertice dell’ufficio che consegnammo direttamente al dottore Giammanco. In esito alla quale lo stesso decise di lasciare la Procura della Repubblica.
Quale fu la sua reazione il 19 luglio?
Fu una reazione di grande dolore e di preoccupazione. Il dottore Borsellino era una persona cara a tutti noi della Procura. Eravamo molto legati con il collega e probabilmente c’era una sorta di incredulità quando abbiamo appreso la notizia della strage. Chi mai poteva aspettarsi che a pochi giorni da quella di Capaci sarebbe successo un altro fatto analogo?
Quasi non ci si credeva, c’era quindi una grande preoccupazione perché tutti ci interrogavamo sull’accaduto: “Ma cosa sta succedendo? Una strage il 23 maggio, un’altra strage il 19 luglio, sta scoppiando una guerra!”. Eravamo tutti consapevoli che si trattava di una strage di carattere mafioso, anche se ancora non erano stati individuati i responsabili. E da parte di tutti c’era questa grande preoccupazione, su cosa sarebbe accaduto in futuro. Avevamo la consapevolezza di aver perso due colleghi come il dottore Falcone e il dottore Borsellino che per noi erano sempre stati una guida, dei colleghi che ci avevano insegnato tanto.
Facendo un salto temporale di vent’anni, nelle motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo di Francesco Tagliavia per le stragi del ’93 a Firenze, Roma e Milano secondo i giudici della Corte d’Assise di Firenze lo Stato avviò una trattativa con Cosa nostra. Alla luce delle nuove indagini su via D’Amelio e sulla trattativa qual è la sua analisi in merito?
Non c’è dubbio che siano emersi degli elementi di fatto da cui desumere l’esistenza di una trattativa. Questo è un dato oramai acclarato. Il problema di chi svolge le indagini su questo tema è quello di appurare i contenuti di questa trattativa: chi partecipò, se questi contatti si sono realizzati, da parte di chi, qual era l’oggetto di discussione, e soprattutto se questo comporta la sussistenza di responsabilità di carattere penale. Quello che è assolutamente pacifico è proprio che vi sono stati dei contatti. Per quanto riguarda il depistaggio, il dato certo è che Vincenzo Scarantino si è autoaccusato incolpando determinate persone.
Poi a distanza di anni abbiamo appreso che Gaspare Spatuzza ha riferito una versione palesemente diversa. Il compito dell’autorità giudiziaria è quello di cercare di individuare quali siano state le motivazioni che hanno indotto Scarantino a mentire, così come quelle motivazioni che hanno spinto qualcuno che conduceva le indagini ad assumere dei comportamenti che sono stati individuati dalla Procura di Caltanissetta in riferimento alla posizione di Scarantino, infine quali siano state le motivazioni sottostanti e, una volte individuate, perseguire i relativi responsabili.
Allo stato io mi fermo al dato oggettivo, al punto delle indagini in cui si trova la Procura di Caltanissetta e cioè avere individuato che Scarantino ha mentito, che le dichiarazioni di Spatuzza sono state adeguatamente analizzate, riscontrate e quindi ritenute attendibili, anche nei loro contenuti di contrasto alle dichiarazioni di Scarantino e che sono state adottate le opportune iniziative processuali.
In merito alla questione relativa a cosa ci stia dietro, se ci sono vari livelli di menti raffinatissime, di servizi ecc. la mia posizione (da cittadino e da magistrato) è quella che fino a quando non ci sarà un procedimento penale con un imputato e un’imputazione, resto in attesa di apprendere l’esito delle indagini.
Qualche tempo prima della strage Falcone disse: “Mi sembra che questa città stia alla finestra a vedere come finisce la corrida”; lei che idea si è fatto al proposito? Quando potrà finirà quella che oltre ad essere una corrida può essere considerata una vera e propria guerra?
Sino a quando una parte della città continuerà a stare alla finestra, sino a quando una parte della città riterrà che la lotta alla mafia sia qualcosa che riguarda altri o qualcosa che riguarda il passato (come se fosse un vecchio film), fino a quando una rilevante parte della città continuerà a corteggiare personaggi notoriamente vicini agli ambienti mafiosi, accogliendone subito scuse pretestuose come se fossero tutti vittime di complotti orditi chissà da chi, fino a quando questa parte della città, che costituisce la palla al piede della lotta alla mafia, non riuscirà a maturare, fino a quando questa parte della città sarà colpita da grave immaturità, da grave provincialismo, da grave incapacità di rendersi conto dove si vive, ebbene fino a quel momento continueremo a registrare successi del momento repressivo, ma la parola fine nella lotta alla mafia sarà sempre più lontana.
Quindi in una città come Palermo cosa resta da fare per invertire la rotta, per fare in modo che questi spettatori alla finestra siano sempre di meno?
Bisogna sperare che questa gente cominci a capire, cominci a riflettere e a rendersi conto innanzitutto sul luogo in cui vive. Questi “spettatori” si comportano come se vivessero in una città del nord come Belluno, Bolzano o Trieste. Qui purtroppo siamo in una città che ha una storia molto diversa. Chi vive in una storia ben diversa dovrebbe capire che, ad esempio, chi in questa terra ruba si chiama ladro, chi uccide si chiama assassino e chi ha rapporti con i mafiosi si dovrebbe chiamare traditore.
Chi si avvicina all’ambiente mafioso già di per sé è un traditore di questa terra. Se non si capisce questo passaggio saremo purtroppo condannati a convivere con la mafia e con questa gente che non riesce a maturare. La soluzione finale sarà quindi sempre più lontana.
(L’intervista integrale sul n. 69 di Antimafia Duemila)