“Ciao, da dove scappi?”
Dal Gambia, dalla Guinea e dal Senegal: un lungo viaggio di terra e di mare.
Incontriamo un gruppetto di ragazzi dell’ Africa occidentale.
Ci sediamo con loro sul prato attorno alla fontana della stazione di Catania.
“Vieni, siediti qui che ti sporchi” e mi offrono un angolo di cartone essendo l’unica donna del gruppo.
“Si sta bene qui, c’è fresco, per questo ci veniamo“
Solo uno di loro fa conversazione. Che gli altri due ci capiscono lo intuiamo dal loro annuire o dallo sguardo che, forse al ridestare di certi brutti ricordi, tristemente si abbassa. Sono arrivati soli, i genitori sono morti in Africa. Sono stati registrarti all’arrivo e dal centro di accoglienza trasferiti in una Casa Famiglia. Ci dicono che loro sono fortunati, ma che di tanti minori non si sa niente (nome, provenienza, che fine fanno), dormono in strada, con tutti i pericoli a cui si può andare incontro “e questo non è giusto“. I vestiti estivi mostrano del corpo alcune ferite e uno di loro porta una brutta cicatrice sul volto.
“Cos’è successo?”
“Oh…brutta storia”
Storia che non abbiamo da raccontare.
***
Ciao, da dove scappi?
Scappo dal Gambia e dai “metodi di tortura applicati e comprendenti percosse molto gravi mediante l’utilizzo di oggetti pesanti o cavi elettrici; scosse elettriche; soffocamento provocato mettendo prima un sacchetto di plastica sulla testa e quindi riempiendolo con acqua e ustioni con liquido bollente”
Scappo dalla Guinea dove “diverse persone arrestate hanno riferito di essere state sottoposte a tortura e almeno sei donne erano state stuprate mentre cercavano di rientrare al loro villaggio, in cerca di cibo o di beni di prima necessità“.
Scappo dal Senegal perché “la Corte d’assise di Dakar ha condannato due uomini a 20 anni di lavori forzati in relazione alla morte di un giovane ausiliario del corpo di polizia, nonostante questi avessero denunciato che le loro deposizioni erano state estorte sotto tortura…. Almeno 22 persone, tra cui tre donne, sono state arrestate per il loro percepito orientamento sessuale.”
* da i report di Amnesty International 2015-2016
Mara Trovato
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“Ma perchè vai a Gorizia?”
Gli immigrati come pacchi da spostare: da Catania al confine con la Slovenia.
“Ne vuoi un po’?”
“No no, io non fumo gioco a calcio. Sono mediano in prima squadra a Misterbianco”.
“Allora ti pagano! Bello no?”
“Sì, però fra poco mi trasferiscono a Gorizia”
Davanti la stazione c’è una grande fontana con degli alberi attorno, è l’unico punto della piazza dove poter stare, nel caldo d’agosto. Qui si riuniscono di solito donne col foulard, gente dalla pelle scura e le valigie.
Bastano poche chiacchiere e si fa amicizia, si scambiano battute, si aggiunge subito un ragazzino in ciabatte che offre dello yogurt bianco.
“Ma perchè vai a Gorizia?”
“Ho fatto diciotto anni, adesso entro nel progetto Sprar” risponde il calciatore.
Lui è un ragazzo gambiano e sta, come gli altri tre, in una Casa Famiglia per minorenni senza genitori. “In Gambia giocavo a calcio e studiavo – continua lui – mi è sempre piaciuto. Ho anche un soprannome, tutti a pallone mi chiamano…”.
Discute mentre è appoggiato a terra con un braccio, le gambe sono distese: “Lui è mio fratello” e indica quello con gli occhiali da sole e il cappello, che viene del Senegal. “Di sangue?” gli chiediamo. Il gambiano sorride e risponde: “No di pelle”.
Gorizia è lontana da Catania e là ci sta la Gradisca d’ Isonzo, un’ex caserma usata anche per accogliere i richiedenti asilo: tipo il Cara di Mineo ma molto più piccolo. E’ a dieci chilometri dalla Slovenia e non ci sono fermate per il centro città quindi chi ci abita non può lamentarsi, al contrario di Capalbio. Il posto è famoso perché molti fra dirigenti e lavoratori della struttura avrebbero truffato lo Stato e gli stessi immigrati. Ad esempio, il colonnello Vittorio Isoldi ai tempi era il direttore del centro di identificazione ed espulsione (CIE). Secondo l’accusa, si sarebbe tenuto in tasca soldi che gli ospiti davano a lui per inviarli alle famiglie. E tre dipendenti della cooperativa Connecting People, che gestiva la Gradisca, erano suoi complici.
Il gambiano non sa se andrà lì, è probabile, è solo triste di lasciare Catania.
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“La vita è una merda!” esclama all’improvviso il fratello di pelle. Ne ha quasi diciannove di anni e quando parla ti guarda fisso negli occhi: “A me non importa se Catania, Torino, Nord o Sud basta che trovo lavoro” dice rullando una sigaretta. Poi dallo zaino esce un foglio con la sua fotografia stampata: scuola media, arabo-inglese-italiano, esperienze come elettricista e idraulico. A parte le lingue, sembra il curriculum di un catanese qualunque, in cerca di sistemazione: “Tengo con me sempre una copia”.
Il terzo della comitiva non parla. Ascolta distratto, vorrebbe dire qualcosa ma poi prende il telefono e scrive messaggi su whatsapp. Sembra non voler raccontare nulla della Guinea e allontana lo smartphone quando gli sei troppo vicino. Ha diciassette anni e diverse cicatrici sulle gambe, una sotto l’occhio destro.
Arriva l’ora di pranzo e ci si saluta, lasciamo un biglietto con dei recapiti che magari possono tornare utili. Loro restano a guardare la fontana con Prosperpina immobile tre le mani di Plutone e del fumo si alza sopra il gruppetto, che diventa piccolo fino a sfocarsi del tutto.
Alberto Incarbone