domenica, Novembre 24, 2024
-mensile-Storie

Chinnici, Radio Aut, e le indagini su Peppino

Di Rocco Chinnici si ricorda la sua grande umanità, pari alla severità con cui istruiva i processi contro i mafiosi, la sua capacità di entrare all’interno dell’animo di coloro che stava interrogando e di trattare con riservatezza gli elementi delle sue indagini. Nel 1986 il giornalista Alberto Spampinato, nel Calendario del popolo, riferiva che, in un colloquio con Chinnici, a proposito del caso Impastato, questi gli aveva detto: “Ce la metto tutta. E’ come se avessero ucciso mio figlio”.

E’ davvero emblematico un pensiero espresso da Chinnici e al quale si sono ispirati tutti i giudici che ne hanno raccolto l’eredità: “La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare”. Purtroppo la sua era una paura fondata.

Aveva la precisa convinzione che all’interno del palazzo di giustizia esistessero talpe, funzionari, legali e magistrati al servizio della mafia. Scriveva di suo pugno i verbali, evitando di ricorrere al segretario. Nel suo diario, pubblicato dal Giornale di Sicilia dopo la sua morte e troppo frettolosamente tolto dalla circolazione, ci sono una serie di considerazioni e riflessioni amare sugli intrecci tra alcuni magistrati suoi colleghi e i mafiosi.

Nel suo libro “Mafia” Enzo Guidotto racconta che, quando Chinnici e Gaetano Costa dovevano scambiarsi delle idee o parlare di cose riservate, si mettevano in ascensore pigiando più volte i pulsanti del sali e scendi, mentre comunicavano.

Rocco Chinnici fu ucciso il 29 luglio 1983 con una Fiat 127 imbottita di esplosivo davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, all’età di cinquantotto anni. Morirono con lui nell’esplosione il carabiniere Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della sua scorta, e il portiere dello stabile Federico Stefano Li Sacchi. Ad azionare il detonatore che provocò l’esplosione fu il killer mafioso Antonino Madonia.

Senza nulla togliere a Falcone e a Borsellino e ad altri giudici vittime della mafia, possiamo considerarlo la più alta espressione della magistratura in Sicilia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *