“Chi sono io per giudicare” o “I gay devono morire”?
Eravamo rimasti che donne e uomini omosessuali possono anche esistere e far parte di una comunità cristiana.
Papa Francesco aveva addirittura nicchiato “Chi sono io…?”. Ma subito le parole e poi le pagine dei documenti e la bibliografia sulla famiglia. E noi – donne e uomini LGBTI credenti – tra rabbia e comprensione di queste difficoltà collegiali – a porre in uso la pazienza.
La pazienza per un Magistero che ci vorrebbe far esistere soli, alienati, senza famiglia, senza figli. Senza circolarità di vita concreta, sperimentata. Come dire che è una annosa questione storica.
Ma ecco che col caldo di giugno, dalla Sardegna un ragazzotto che fa il prete (che è stato ordinato prete) spiega meglio la questione in una omelia: “I gay devono morire”.
Da Decimoputzu agli italiani non ci sono tante esegesi da fare sulla questione. E sulla violenza di quelle parole, il vescovo che lo ha ordinato deve spiegarci.
E vogliamo anche le parole del vescovo, della conferenza dei vescovi sardi, della conferenza episcopale italiana, di Avvenire.
Altrimenti quelle tre parole del papa Francesco “Chi sono io per giudicare?” perdono – contestualmente – quel significato pastorale, che ha tentato di porre in atto una possibilità di trait-d’union non violenta tra la catechesi storica (o meglio, il Magistero) e la modalità della vita delle persone.
Si può forse gestire la pazienza sulle “sentinelle in piedi” che vengono a manifestare la forma integralista della loro fede. Non si può tollerare altro.