Chi non si è fermato
Pippo Fava ed i “ragazzi” dei “Siciliani” lo sapevano bene. La mafia non può essere ridotta a cronaca folkloristica o questione di ordine pubblico di cui occuparsi solo quando si spara. E’ questione ben più complessa.
Tutti lo dicono, ma non tutti ne traggono le necessarie conseguenze operative. Fava e quei “ragazzi” erano invece fra coloro che si sforzano di approfondire la vera natura delle organizzazioni criminali e ne evidenziano il vero obiettivo, che è quello di controllare il territorio trasformando i cittadini in sudditi, elargendo favori o briciole di ricchezza. Avevano capito che l’informazione ha un ruolo decisivo.
Perché se i problemi posti dalla mafia sono vissuti dalla gente come problemi di guardie e ladri, da osservare stando a rispettosa distanza e vinca chi può, senza lasciarsi coinvolgere più di tanto, chi ci guadagna è proprio e soltanto la mafia. A rimetterci sono i cittadini.
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La storia della Sicilia è storia di un coraggioso movimento popolare antimafia che risale ai Fasci siciliani di fine Ottocento, un movimento che ha lottato e resistito per anni, pagando un altissimo tributo di sangue alla violenza criminale degli “uomini d’onore” e dei loro alleati, agrari o politici che fossero.
Purtroppo, la storia della Sicilia è anche storia di passività e connivenze, di consenso sociale che la mafia è riuscita a imporre o conquistarsi, profittando della latitanza o della complicità delle istituzioni e dell’informazione.
Per contro, l’esperienza dei “Siciliani” di Pippo Fava ha fatto registrare un’impennata di orgoglio.
Ha cercato di creare fra i cittadini una coscienza diffusa circa il fatto che la criminalità organizzata costituisce un opprimente “tallone di ferro” sull’economia del Mezzogiorno che ne ha determinato uno sviluppo perversamente distorto. Per il sistematico drenaggio di risorse e per l’economia di rapina che condiziona e “vampirizza” il tessuto economico-legale (a forza di estorsioni, truffe, usure, appalti truccati, tangenti eccetera). Drenaggio che ingrassa i mafiosi e i loro complici, mentre lascia agli altri quanto basta (un’elemosina) perché non alzino troppo la testa.
Perciò, scopo dei “Siciliani” era quello di rendere evidente che la mafia costituisce una seria minaccia per la libertà di tutti. Così cercando di far maturare nella società civile la consapevolezza che di mafia ci si deve occupare in prima persona, senza passivamente delegare tutto a polizia, carabinieri, magistratura.
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La mafia non può tollerare che se ne parli in questo modo, che spazza luoghi comuni consolidati e ne disvela invece il volto autentico. E sono tanti, tantissimi i giornalisti che hanno pagato con la vita il loro impegno coraggioso.
Tra questi Pippo Fava. Forse ucciso anche perché – ieri come oggi – coloro che, operando nel campo dell’informazione, non accettano di convivere con la mafia sono minoranza. Spesso additati (anche da certi colleghi) come “marziani”.
Soprattutto quando osano l’inosabile: cioè esplorare il lato più nascosto del potere mafioso, quello che si vorrebbe tenere fuori da ogni scena pubblica.
Con rischi personali costanti, perché qui da noi “chi ha la schiena dritta è un bersaglio migliore”.
E chi cerca di mantenere accesa una luce sugli affari illegali, sulle com plicità (spesso politiche, amministrative e imprenditoriali) del sistema criminale e sulle sue osmosi con il mondo e l’economia legali si espone alle ritorsioni.
Da noi – ieri come oggi – per molti il vero peccato non è il male, ma raccontarlo. Pippo Fava lo sapeva, ma non si è fermato.