domenica, Novembre 24, 2024
-mensile-Cultura

“Cento passi ancora”

Il nuovo libro di Salvo Vitale 

Mi sono recato a Cinisi per la prima vol­ta nell’inverno del 1999 insieme a Fabri­zio Mosca, il produttore de I Cen­to passi, al tempo ancora in gestazione.

Era stato lui a propormi la bella sceneg­giatura di Claudio Fava e Monica Zapelli, in­sieme decidemmo di fare un primo so­pralluogo per vedere i luoghi e soprattutto co­noscere i famigliari e gli amici di Peppi­no Impa­stato. In cuor mio non avevo an­cora deciso di fare il film, molti erano i dubbi che mi tormentavano. Non tanto per la fi­gura esemplare e affascinante di Pep­pino quan­to per tutto il resto che avrei do­vuto met­tergli intorno: la Sicilia e i sicilia­ni, le case, i paesaggi, le parole, i silenzi. Sape­vo troppo poco della Sicilia, giusto quello letto sui libri o visto al cinema.

Ogni volta che c’ero stato avevo avuto sensazioni molto forti, come davanti a una personali­tà molto forte, ma erano state vi­site troppo brevi per trasformarsi in vera cognizione. Temevo quindi di cadere nei luoghi comu­ni, negli stereotipi coi quali l’isola viene spesso rappresentata. Ero un estraneo, uno stra­niero che non sa la lin­gua e deve farsi ri­petere le frasi per co­minciare a masticar­le. Non avrei voluto deludere il mio giova­ne produttore, così entusiasta e coraggio­so, ma nell’intimo meditavo di rinunciare. Aspettavo il mo­mento buono per dirglielo. Poi accadde qualcosa che mi fece cambia­re idea.

Felicia Impastato parlava svelta, di fret­ta, come a liberarsi subito dei convenevoli. Gli occhiali ingrandivano i suoi occhi at­tenti, curiosi, non ostili ma nemmeno in­genui. Si capiva che con lei bisognava es­sere diretti, dire pane al pane. Nessuno po­teva prevedere gli sviluppi successivi, né immaginare che le nostre vite si sarebbero intrecciate in modo così decisivo, in quel momento non eravamo che gli ennesimi visitatori e chissà quante volte l’aveva già raccontata la storia di Peppino.

Eppure ap­pena Felicia cominciò a parla­re non ci po­temmo più scollare.

Nessuna autocommiserazione nelle sue parole, mai una lamentela, una lacrima. Non inveiva, non recriminava. Esponeva i fatti con la semplicità e l’evidenza del te­stimone e al tempo stesso dello storico che ne sa tutta la portata, tutte le implicazioni. Perfino il modo di dire, la “recitazione” (dovete scusarmi ma il regista è sempre al lavoro, vede tutto attraverso l’occhio della macchina da presa), non utilizzava alcun artificio retorico. Nessun pathos indotto dalle dinamiche del volume o del ritmo, da pause o accelerazioni. Non parole per col­pire un pubblico, non conferenza o comi­zio ma confessione privata, riepilogo per non perdere la memoria. E davvero senza quella memoria, conservata prima di tutti da Felicia, poi da Giovanni e via via da tutti i compagni di Peppino, oggi non ci sarebbero di lui che tracce sbiadite.

Mi fecero molta impressione quelle pa­role e soprattutto il tono. Mi diedero una chiave per avvicinarmi al film. Mi fu chia­ro che se l’avessi fatto avrei dovuto adot­tare quello stesso punto di vista, “interno” e distaccato al tempo stesso.

Parlare di quei fatti senza sollecitare la mozione degli affetti, senza gonfiare il petto e ricattare l’interlocutore giocando sulla compassione. Al contrario avrei do­vuto essere il più asciutto possibile, alli­neare gli elementi e mostrarli così com’ erano. Gli spettatori ci avrebbero poi ag­giunto i propri sentimenti, il proprio giudi­zio, ben sapendo che ciò che può fare un film è costruire il mythos, la leggenda, il romanzo attraverso cui far vivere le veri­tà occultate (o distorte fino a renderle irrico­noscibili), non certo sostituirsi alla leg­ge o alla comunità delle persone che in tutti quegli anni aveva tenuto acceso il fuoco.

Il libro di Salvo Vitale parla proprio di loro, delle ragazze e dei ragazzi che all’in- domani dell’omicidio si attivarono perché venisse identificato come tale e non rima­nesse impunito. Un lavoro quoti­diano, ac­curato, microscopico, per racco­gliere dati, prove, testimonianze che smen­tissero l’idea assurda del suicidio che inse­guivano gli investigatori. O dell’inci­dente sul lavo­ro dell’attentatore maldestro, come dissero dopo che la pista del suicidio di­venne im­praticabile. Tutti questi amici di Peppino, anzi i suoi compagni, quelli che avevano condiviso con lui l’esperien­za delle lotte politiche, del circolo Musica e Cultura, di Radio Aut o anche soltanto un’amicizia senza tessera, hanno dovuto battersi per molto tempo contro i depistaggi e la malafede delle prime indagini prima di incontrare giudici e investigatori per bene.

“Questa silenziosa battaglia” 

Senza l’incontro di tutte queste forze, senza il contributo di queste persone, la verità non sarebbe mai venuta in luce. Sarebbe rimasta nascosta fra i sassi della ferrovia, nelle ficaie d’India che limitano i campi, nei muri a secco, nell’omertà degli assassini che non ebbero nemmeno il coraggio di firmare, come vuole la tradizione mafiosa del castigo esemplare.

Ma come firmare una condanna a morte motivata solo dal ridicolo che Peppino aveva riversato su di loro dai microfoni della radio? Come ammettere di esserne stati umiliati? Salvo Vitale rievoca questa silenziosa sotterranea battaglia ini­ziata nel momento stesso in cui Peppino è stato as­sassinato, ne rievoca le stagioni, gli alti e bassi, i momenti in cui i mafiosi sembra­vano averla vinta, le speranze acce­se da un giudice volonteroso. Anche nei momenti più disperati, quando sembra davvero che sia il male a prevalere – si sente sempre una forza d’animo, una vo­lontà che s’impone anche a distanza di tanto tempo.

Non fu solo l’amore per Peppino, il rimpianto e lo sdegno per la sua fine atro­ce. Fu soprattutto un atto di ribellione al sopruso e speranza nella giustizia. Fu ri­fiuto di considerare immutabili le cose e fiducia al contrario che prima o poi la ve­rità viene a galla e diventa patrimonio co­mune, cultura, condivisione.

Sono passati molti anni da quell’autun­no del 1999 in cui ho girato I Cento Passi e conosciuto Salvo e molte delle persone di cui parla il suo libro. Inevitabilmente la vita di un regista viene scandita dai suoi film, ognuno porta con sé un tempo lungo di lavorazione, di incontri, di persone che per un periodo ti sono indispensabili come l’aria che respiri. Poi tutto svanisce, can­cellato o assorbito dal progetto successivo. La stagione de I Cento Passi invece per me non è mai finita. Dura ancora, la sua energia non si è spenta. Spesso mi invita­no nelle scuole a parlare del film, tuttora mi giungono corrispondenze dai luoghi più lontani, gente che lo ha visto in tv o in DVD o su Youtube e vuole sa­perne di più.

Voglio dire che negli anni quest’avven­tura si è trasformata in qualco­sa che non ri­guarda più solo la professio­ne, ma inva­de il campo dell’amicizia e de­gli affetti più profondi. Mi fa un grande piacere ri­trovare questi amici nelle pagine di Salvo, oltre ovviamente a ritrovare lui. Apparten­gono a un periodo molto bello della mia vita, ri­cordano figure che mi scaldano il cuore. E’ bello vedere che nes­suno di loro ha dimen­ticato, nessuno si è tirato indie­tro. Serve sapere che c’è gente così.

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