Cent’anni di improntitudine
Il reato di associazione mafiosa esiste solo dal 1982. Ma la mafia aveva già più di un secolo di rapporti con la politica alle spalle
Palermo, le 16.58 del 19 luglio 1992. Il botto fu sentito in ogni angolo della città. Il quintale di tritolo detonato coinvolse decine di automobili parcheggiate fitte in via D’Amelio provocando un interminabile susseguirsi di esplosioni, mentre era già scempio dei corpi di Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina.
Le telecamere raccolsero quello strazio, il buco nero che irradiava fuliggine e sangue sulle facciate dei palazzi, e lo fecero esplodere in tutti i luoghi raggiunti dalle cronache e, da lì, nell’intimo di ogni persona. Paura e impotenza, di nuovo, a 57 giorni da ciò che aveva già assunto nella coscienza collettiva il peso della peggiore strage di mafia mai attuata e che ora veniva eguagliata in questo tragico primato da un altro disarmante massacro.
Falcone e Borsellino potevano essere uccisi in mille altri modi. Falcone in particolare, poteva essere colpito a Roma, senza il botto di 500 chili di esplosivo. E invece si scelse così perché fosse inteso che quel rumore non ero solo il frastuono della vendetta e dell’odio verso il nemico numero uno, diceva piuttosto del segno politico di quella violenza e di quelle che sarebbero seguite.
A distanza di vent’anni è tutto ancora più chiaro. Oggi, grazie al lavoro di alcuni magistrati, possiamo trovare conferma di quello che spesso, nonostante tutto, viene ancora tacciato come teorema, e cioè che la violenza mafiosa è uno strumento politico, ha senso solo come strumento politico. Capaci e via D’Amelio, e poi via dei Georgofili e via Palestro, sono il segno più lampante e chiarificatore di questo significato.
La colpa di Falcone e Borsellino, e di tutto il pool antimafia, era stata quella di togliere valore alla tradizionale moneta di scambio con la quale Cosa nostra intesseva tradizionalmente rapporti con la politica, l’impunità.
Giusto un dato: in Italia il reato di associazione mafiosa viene introdotto solo nel 1982, dopo 120 anni di mafia e di rapporti tra mafia e politica.
Fu necessario il sacrifico di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa, ma alla fine si ottenne quantomeno la formalizzazione nel codice penale dell’esistenza della mafia. Prima del maxiprocesso istruito dai due magistrati uccisi nel ’92, la giurisprudenza in merito è la narrazione di un coito interrotto: arresti, processi, assoluzioni. Così per oltre un secolo.
Il vicerè di Andreotti
Ora invece quel pool di magistrati metteva alla sbarra 475 mafiosi, e il 16 dicembre del 1987 ne faceva condannare 360. Si provò a vanificare il lavoro del pool. La sentenza di appello si innestò sul solco della tradizione. Così non fu in terzo grado: il 31 gennaio ’92, la Cassazione confermava le condanne del maxiprocesso.
Il 12 marzo del ’92, il primo (e l’ultimo) politico mafioso a pagare con la vita fu Salvo Lima, viceré di Andreotti in Sicilia. Molti tremarono nei palazzi romani. E fu così che, per salvare la vita ad altri politici mafiosi, a partire dal giugno del ’92, lo “Stato” si inginocchiò, restituendo alla mafia quella sovranità che stava perdendo e aveva in parte già perduto.
L’indagine sulla “trattativa” condotta a Palermo negli ultimi due anni svela il coinvolgimento del capo della Polizia di allora Vincenzo Parisi, uomini del Sisde, alti ufficiali dei ROS, magistrati ed esponenti politici; mentre molti sapevano, persino – secondo rivelazioni di stampa – il capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro.
Il fondatore di Forza Italia
Gli uomini cerniera furono il corleonese divenuto politico, Vito Ciancimino, e poi, dopo il suo arresto e quello di Totò Riina, Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia.
Tramite lui ad Arcore arrivarono le richieste di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella: una più morbida legislazione penale e processuale, il condizionamento dei processi in corso, migliori condizioni detentive. Mentre già sul finire del ’93 il guardasigilli Giovanni Conso non aveva rinnovato i provvedimenti di regime carcerario 41 bis di 334 detenuti.
Nell’estate del ’92 e fino al ‘93, Cosa Nostra espresse tutto il suo potenziale politico facendosi terrore. Destabilizzò. Congelò la trasformazione in atto. Rigenerò a suo modo il sistema partitico che declinava sotto i colpi di Tangentopoli.
Reclamò e ottenne il suo collaudato rapporto di scambio con nuovi e turpi interessi velati da carismatiche e telecratiche formazioni partitiche, gettando le basi per una nuova stagione di impunità.
Spalancò le porte alla nascita di questa seconda Repubblica che oggi canta da cigno sotto la scure degli scandali, della corruzione e della crisi economica e che ebbe come atto di nascita l’apice della violenza politica di Cosa Nostra, il sangue di Falcone, Borsellino e di altre vittime innocenti.