Caserta e gli antieroi
Siamo cresciuti in una città senza memoria…
Siamo cresciuti in una città senza memoria. Quelli della generazione di mio fratello almeno avevano vissuto l’anno d’oro della Casertana in serie B e dei canestri di Esposito che fecero vincere lo scudetto alla Juve Caserta. Noi a cosa potevamo aggrapparci?
I nostri genitori avevano radici altrove e provarono a piantarle su un terreno ormai sterile. Erano gli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, Caserta pulsava di vita. Io avevo cinque anni e di quel periodo ne ho sentito parlare. Piazza Mercato era il principale luogo di aggregazione, uno spazio grande in pieno centro frequentato da guappi dei rioni, figli di papà, il melonaro, i ragazzi del centro sociale, i bambini, i musicisti, i pazzi. Si organizzavano partite di basket, di calcio, di tanto in tanto volavano bottiglie.
C’era una rampa costruita da quelli che andavano sui roller e sugli skate. Noi giocavamo a calcio in quella piazza, nei campetti del Buon Pastore, del rione Vanvitelli e dei Salesiani, partecipavamo ai tornei rionali. Andavamo in bicicletta per le campagne coltivate a tabacco. Totalmente ignari.
Che fine avranno fatto tutti i miei compagni? Me lo domando spesso. Solo un amico che conosco da allora è ancora in zona, è un musicista appassionato e il pensiero di saperlo felice di ciò che fa rende felice anche me. Alcuni invece sono scappati senza lasciare traccia, altri sono spariti dalla circolazione, molti sono partiti. C’è chi è morto di overdose, chi per incidenti stradali, chi invece s’è suicidato e chi è rimasto scegliendo di vivere degnamente (una sparuta minoranza). Certi non li ho mai più rivisti.
Gli amici del rione Cappiello
Non ho la minima idea di dove possano essere in questo momento certi ragazzi con cui ho condiviso l’infanzia, compagni di classe delle elementari. E tutti quegli amici del rione Cappiello che venivano a citofonarmi la domenica alle tre di pomeriggio per andare a giocare a calcio?
Loro avevano finito di mangiare due ore prima mentre noi c’eravamo appena seduti a tavola. Ecco una banale differenza tra una famiglia di casertani e una famiglia di napoletani. La mia emigrò a Caserta nella metà degli anni Ottanta. Mio nonno paterno, che non ho mai conosciuto perché morì di tumore in fabbrica a quarantatre anni, riuscì a ottenere la casa a San Giovanni a Teduccio e tutta la famiglia di mio padre si trasferì dalla Sanità, nonostante la contrarietà di mia nonna. Anche la famiglia di mia madre è di Napoli. Mia madre dice che dal basso in cui abitava da ragazza è salita al terzo piano di un condominio.
Ora che sono venuto a vivere al quinto piano di un palazzo antico a due passi dal vico in cui lei è nata e cresciuta prima di andare via, mi viene da riflettere. Passo ogni giorno davanti al portone in cui abitava mia nonna Natalia, e faccio un cenno di saluto dentro di me, un rito personale, pagano e ridicolo, un gesto silenzioso in onore della sua memoria. È come se andassi a trovarla ogni volta. Difficilmente riuscirò a perdonare i miei genitori di essersi trasferiti a Caserta. Ma non li biasimo per questa scelta. Non avrebbero potuto fare altrimenti.
L’adolescenza coincise con il declino, con la scoperta dello squallore e della bruttura. Cominciammo a renderci conto a poco a poco dello sfacelo circostante e della cappa di cemento che avvolgeva la città, accerchiata dalle montagne sventrate. Allo stesso tempo eravamo allo sbando, privi di riferimenti. Accompagnavo mio padre in giro per l’hinterland, quando non andavo a scuola l’aiutavo nel suo secondo lavoro, mettere gli infissi in alluminio nelle case della gente. Furono i primi contatti con la realtà dell’entroterra e con il significato della fatica.
Afragola, Casoria, Casavatore, Acerra. Quando passavamo per la fabbrica della Voiello, all’altezza di Caserta sud, sentivamo un forte odore di pane, e dopo qualche chilometro, all’altezza di Caivano, c’era puzza di carogna morta.
A quindici anni trascorsi l’estate a fianco di un amico di mio padre, un masto idraulico. Volevo mettere dei soldi da parte per una vacanza e mi ritrovai a lavorare in un cantiere edile per tre settimane. Allora di quel palazzo in costruzione c’era lo scheletro. Oggi è completato, ci vivranno famiglie della piccola borghesia casertana. Furono giornate tremende e meravigliose. Credo di aver imparato più cose in quei giorni che in cinque anni di università.
Le esperienze più significative riguardano proprio quel periodo. Frequentavamo un posto nascosto tra i palazzi, cominciammo a orbitare intorno agli ambienti della vita attiva o sedicente tale, ma eravamo circondati dal malessere e dal rischio di perderci tra le droghe provenienti da Secondigliano via Asse Mediano.
Intorno a noi scarseggiavano esempi, ma in fin dei conti difficilmente si scelgono i veri maestri. Sapevamo della presenza di un Vescovo che affrontava con coraggio e determinazione i problemi degli esclusi, degli immigrati, ma allora diffidavamo di chiunque, persino di noi stessi.
Un paesone aggredito dai trimalcioni
Le nostre coscienze intuivano che qualcosa non andava, percepivano l’aria stantia del paesone di provincia aggredito dai palazzinari e dai trimalcioni arricchiti, e reagivano in vari modi: le droghe, la musica (Caserta pullula di ottimi musicisti), la cultura urbana importata dagli Stati Uniti, la fuga, qualche lettura, l’autodistruzione. Eravamo inquieti.
La nostra era una provincia mentale, non solo spaziale: una condizione dell’anima, una predisposizione alla marginalità. Napoli era lontana quanto New York, eppure, quando andavo a trovare mia nonna Natalia restavo sempre affascinato da due cose: l’enfasi dei suoi racconti e la grande città con tutto quel mare.
Banche e centri commerciali
In quegli anni sono cambiate radicalmente le cose. Le nostre esperienze politiche venivano facilmente neutralizzate da inutili discorsi impregnati di ideologia e da conflitti inutili tra opposte fazioni. Ma la realtà era altro.
Caserta si crogiolava nella sua bolla finanziaria fatta di banche e centri commerciali circondati dai territori saccheggiati della vasta provincia. Da noi la campagna era stata aggredita dal cemento e dalle discariche abusive, il mare più vicino faceva schifo. Provenivano gli echi del coprifuoco a Marcianise, la brutalità dei clan camorristici delle provincie limitrofe, ma a Caserta non si vedevano i morti ammazzati e la città proliferava di miti abusivi.
Andavamo al mare in Lazio facendo finta di non vedere i disastri che avevano combinato sul litorale domitio. Nel frattempo, senza neanche rendermene conto, ritrovai al mio fianco una persona che adesso posso identificare come un maestro, al di là del bene e del male. Studiava i testi di filosofi e sociologi, si faceva crescere la barba, fumava la pipa per assomigliare a Lenin e portava i film di Pasolini a casa insieme ai libri di letteratura e di poesia. Era un ottimo narratore di aneddoti intorno alle figure leggendarie, e quand’era piccolo giocava a scacchi con il nonno senza la scacchiera davanti.
La sua cultura infinita fu un’ancora di salvezza in mezzo a quello stagno, stimolò in me una certa curiosità, impulsiva e ancora superficiale. Entrava nella stanza che condividevo con mio fratello e mentre studiavo controvoglia iniziava a raccontare i retroscena dei poeti fino ad appassionarmi. Era un intellettuale entrato in una casa di gente semplice. Il tempo gli avrebbe dato ciò che voleva, ma a caro prezzo.
Nello stesso tempo si cresceva con la sicurezza di lasciare Caserta, un giorno o l’altro. Piazza Mercato fu chiusa per lavori. Ci si perse di vista, ognuno per la sua strada. Un viaggio solitario a Parigi mi aprì la testa e gli occhi, nacque in me il mito della cultura francofona.
A Caserta iniziarono ad aprire i lounge bar per i giovani rampanti della borghesia cittadina, la città si disgregò, molti andarono via, voltarono le spalle alla città di provincia snobbando Napoli e la sua ombra opprimente. Sbarcavano a Roma e a Milano ondate di casertani mentre in città si cominciava a frequentare altri luoghi.
I giovani manifestavano il loro disagio consumando crack e cobret, andando a ballare in discoteca a Ischitella. La parola d’ordine era “evasione”.
Un lavoretto come portapizze
Trovai un lavoretto come portapizze, avevo diciassette anni. Cinquanta centesimi per ogni pizza consegnata più le mance: una miseria. La benzina al motorino la mettevi con i soldi tuoi. Decisi di partire non appena finito il liceo.
Il giorno della partenza arrivò dopo gli esami di maturità. Avevo scelto Bologna istintivamente, perché era un miraggio, perché volevo andare il più lontano possibile da casa. Avevo messo da parte l’idea di andare a vivere subito a Napoli perché volevo vederla prima da lontano, “poiché ogni visione richiede distanza, non c’è modo di vedere le cose senza uscirne”.
Partimmo carichi di meraviglie, ma non ci volle molto per capire che il paesaggio in cui il tuo sguardo s’è specchiato per anni te lo porti addosso come la puzza di frittura all’ultimo dell’anno. A Bologna ci sentivamo liberi dalle catene del paesone di provincia ma provavamo rabbia e fastidio per tutta quella spensieratezza altrui.
Ma come? Noi eravamo cresciuti nelle saittelle mentre gli studentelli ne ignoravano persino l’esistenza? In quegli anni a Napoli scoppiava l’emergenza rifiuti ma a Bologna parlavano di solidarietà ai banlieusard parigini e dei bei ricordi del glorioso Settantasette…
Un mondo senza evasione possibile
In ogni caso, approfittammo di ciò che offriva la nuova città. Biblioteche, concerti, conoscenze, altri stimoli, nuovi modi d’intendere gli spazi, nuove realtà ed esperienze. Le letture propinate dall’università conciliavano sia il sonno che la curiosità, discutevamo sulle problematiche sociali e politiche e fingevamo di ignorare l’idea di un mondo senza evasione possibile.
La solita maschera di Pulcinella
Ci illudevamo, almeno fino a quando non ci ritrovammo certi libri fondamentali tra le mani. Anche Bologna viveva il suo inesorabile declino, ovattato e distante da quello che accadeva nei posti a cui volenti o nolenti appartenevamo.
Come i soldati, frequentavamo soprattutto gente del sud perché solo con loro riuscivamo a condividere una certa ironia, tanto vitale quanto autoreferenziale. Tutti gli altri risolvevano il problema spinoso della nostra schizofrenia affibbiandoci la solita maschera di Pulcinella. Eravamo macchiette, dovevamo recitare la nostra parte di simpaticoni e affabili meridionali. Dei bolognesi neanche l’ombra.
Di Bologna ricordo il freddo che aggrediva le ossa quando mettevo il naso fuori da quella stazione sfregiata di ritorno dalle vacanze di Natale, le ipocrisie, le serate passate a discutere di utopie. Avevamo il futuro davanti a noi ed era tutto nuovo di zecca. Ricordo le bestemmie sul motorino mentre consegnavo pizze per tutta la città nel mese di febbraio (anche lì esercitai questo glorioso “lavoro nel settore dei trasporti alimentari”).
La città ci ha nutriti e ci ha affamati
Ricordo l’odore stretto dei saloni nelle biblioteche, il senso del vuoto, il disorientamento distratto dall’ebbrezza delle serate trascorse a bere, i progetti mai avviati, i desideri appagati e quelli ingannati. E poi le illusioni travestite da vere e proprie fughe da noi stessi, le prime esperienze di intervento sociale a contatto con i bambini di un campo rom in periferia, tutte quelle menzogne trite e ritrite, le mie e quelle degli altri, quando le verità scottavano troppo per essere ingoiate.
Ricordo l’emergere di una nuova coscienza, ogni istante passato a ridere per la sola idea di essere lontani da casa, annebbiati e persuasi dal gusto effimero di una falsa libertà. E, infine, il fascino della piazza Nettuno desolata, dove i volti espressivi e degni dei partigiani restavano là, sulla facciata della biblioteca comunale, a ricordarci il senso ultimo del tempo che non muore mai.
Da allora sono passati alcuni anni. Scappai da Bologna in tempo per vivere a Napoli. Adesso, quando torno a Caserta mi sento straniero. Così doveva andare. Caserta ci ha dato la forza di agire e ci ha demotivati allo stesso tempo, ma non è tutto perduto. Caserta ci ha nutriti, Caserta ci ha affamati (non si sputa sul piatto in cui s’è mangiato male).