Case per la Camorra, non per la gente
Un occupante-terremotato racconta
Sono nato al corso Vittorio Emanuele. Mio padre era un militare, un uomo di destra ma non fascista, uno che fece la battaglia per levare la pratica dell’attendenza, quando i militari venivano presi dai generali e messi a fare gli autisti, ma pure a fare la spesa alle mogli degli alti in grado, mandati al mercato… Ha fatto più di una battaglia per la dignità dei militari, finché un giorno in un momento di incazzatura prese una scrivania e la buttò in faccia a un generale. Ebbe tre mesi di arresti in casa.
A Soccavo ci sono arrivato a causa del terremoto del 1980. Pur avendo i bambini piccoli fui sloggiato dalla casa che avevo in affitto a Montesanto, che avevo da poco ristrutturato. Dopo un poco decisi di occupare, insieme ad altre persone, un’esperienza che è seguita a un’altra lotta che avevo fatto con i disoccupati. Avevamo messo a lavorare seimila persone, interrompendo una macchina clientelare gestita dalla DC, dai socialisti e in parte anche dal PCI. Eravamo un gruppo di quattro persone, con inclinazioni di sinistra certo, ma estranei alle organizzazioni.
Avevamo cominciato con quelli che all’epoca si chiamavano i “cantieri di lavoro”, che a Napoli si facevano come sussidio per i disoccupati, e che invece noi trasformammo in lavoro vero. Erano una finzione, noi invece chiedevamo di intervenire veramente sulle strade, sui progetti, insomma di lavorare per davvero. All’epoca facevo il topografo. Fu un amico che mi spinse a fare domanda per un cantiere. La domanda venne accettata ma appena cominciai a rompere le scatole cercarono di mandarmi via. Fui convocato da un tizio della Democrazia Cristiana che sosteneva ci fosse un errore e me ne dovevo andare. “Col cavolo che me ne vado!”, risposi. Io tenevo un incarico scritto, e chi lo mollava! Tempo dopo mi avrebbero offerto la dirigenza topografica dell’Infrasud, per togliermi di mezzo. E non la presero proprio bene quando gli dissi di no.
Così cominciai a lavorare in questi cantieri, tra Ponticelli, Barra, c’erano delle baracche, c’erano i progetti, ma tu non dovevi fare niente. Ufficialmente erano lavori per fare marciapiedi, strade ma non si doveva fare mai nulla, perché quello era un sussidio e doveva durare il tempo che doveva durare. Così cominciammo questa battaglia. La linea era: noi stiamo qua? E allora vogliamo eseguire il progetto. Dopo un poco riuscimmo a conquistarci la fiducia dei cantieristi, e in poco tempo diventammo seimila persone. Alla fine la battaglia si vinse e le persone furono messe a lavorare.
Il terremoto però ci tolse tutto. Ci tolse la casa, ci tolse un negozietto a Monteoliveto vicino la facoltà di architettura, dove facevamo le toppe, prendevamo le stoffe a Resina e facevamo dei completi molto belli; e ci tolse anche una scuola a tempo pieno che avevamo aperto in via Tasso, con un gruppo di genitori che non erano soddisfatti delle scuole materne dove questi bambini venivano buttati e non seguiti proprio. Così assieme a un gruppo di studenti, disoccupati e operai, ma anche operatori fuoriusciti dal centro Reich, avevamo affittato una casa, costruito i bagni per i bambini, e portato avanti quest’idea di scuola “libera”.
Dopo il terremoto invece mi trovo senza niente. Io, mia moglie, due figli e la macchina. Mi metto a cercare e chiedono dieci, dodici milioni a fondo perduto per entrare in una casa. Una tangente moltiplicata per trentamila appartamenti sfitti, un giro d’affari enorme, perché molte famiglie accettavano, piuttosto che stare per strada. Ma per me l’unica cosa da fare era occupare. Provai prima al Corso, ma non era cosa. Poi un giorno, per caso, passai per il Rione Traiano. Vidi questo palazzo, fuori tutto costruito, dentro completamente vuoto. Ci guardammo in faccia, eravamo in tre: ok, entriamo. Ed entrammo. Non c’era niente: né le ringhiere, né i pavimenti, niente, era stato gettato solo il cemento. Così cominciammo a costruire, trovammo nelle cantine le finestre e le montammo. Una volta dentro, la voce si sparse e cominciò a venire gente che voleva la casa da noi. Così mettemmo delle regole, cominciammo a controllare i certificati di inagibilità, dovevano entrare solo quelli che avevano perso le case col terremoto. Poi la cosa è cambiata un po’ e allargammo il discorso alle giovani coppie, a questo genere di inquilini. Da lì si innescò un movimento più ampio, nacquero diversi comitati di occupazione, collocammo un sacco di famiglie perché i palazzi vuoti c’erano. Parliamo di palazzi costruiti dai privati o dagli enti. Nel caso specifico questo è un palazzo costruito dal Risanamento, su commissione del Comune di Napoli. Un palazzo che ha subito tre varianti: prima ci dovevano stare gli uffici, poi le case, poi non so che cosa. Di fatto passavano gli anni e non hanno mai fatto niente.
La lotta non fu facile. Abbiamo dovuto combattere, far fare delle delibere, la prima delle quali era quella per costruire materialmente le case. Così elaborammo un elenco di trenta famiglie che avevano diritto. Imponemmo al Comune un canone sociale, proporzionato al salario degli occupanti, ma l’attesa, prima che la situazione si normalizzasse, fu molto lunga e difficile. Con i miei figli e mia moglie abbiamo dormito in un letto matrimoniale vestiti, coi giacconi addosso, per un anno, un anno e mezzo. Tra la polvere, in mezzo allo sfascio. Poi, battaglia nella battaglia, quella col Risanamento, che ovviamente diceva “Mentre noi facciamo le case voi dovete andar via”, così poi col cacchio che ci facevano rientrare. E infatti noi ci spostammo solamente, mentre loro facevano i lavori, tutti su una scala. Poi quando dovevano terminare ritornammo su quell’altro lato, ma non lasciammo mai la palazzina.
Col tempo si era creata una comunità, nel bene e nel male. Un giorno a tavola, ai nostri figli, che erano stati educati in un certo modo, mentre c’è una discussione io e mia moglie sentiamo dire “Neh, strunz’, ‘a bucchina ‘e mammeta!”. Perché poi scendevano, non è che noi li tenevamo chiusi in casa nell’isola felice di pittura, bei giochi e scuola sperimentale. Allora capimmo che c’era una sola cosa da fare. Dovevano andare assieme agli altri, non dovevamo trattenerli, ma quello che potevamo fare era provare a portare agli altri bambini qualcosa che non conoscevano. Così cominciammo a organizzare nella palazzina stessa delle giornate a tema, delle feste, loro non sapevano proprio che significava stare insieme in una casa, esisteva solo la strada. Truccarsi, vestirsi in maschera. Certo, i bambini sono bambini, ma le famiglie non sempre ci vedevano di buon occhio, anzi qualcuno guardava anche con un po’ di preoccupazione alla cosa. La prima volta che abbiamo fatto l’otto marzo, il nove le mogli tenevano tutte quante le facce devastate dalle mazzate. Ma ancora oggi, ragazzi che tengono trenta, quarant’anni, ci abbracciano e si mettono a piangere. Sono gli unici che ci rispettano veramente qua sopra. Qualcuno ci dice “Noi siamo nati nel terremoto e voi non ce l’avete fatto conoscere proprio”.
Col passare degli anni la palazzina è diventata “il palazzo dalle uova d’oro”. Dopo l’occupazione e la costruzione delle case il Risanamento l’ha venduto al Comune a un prezzo altissimo, si sono fatti pagare anche i danni, non si capisce quali danni poi. Insomma, gli è stato fatto un regalo. Tieni conto che per vent’anni noi abbiamo pagato un debito, in qualità di “occupanti”, alla Romeo, da quando ha avuto la gestione del patrimonio pubblico. E ora che sono partiti i riscatti delle case popolari e hanno fatto riscattare tutte le case qui intorno, indovina a chi non viene data la possibilità di comprarle? Solo a questo palazzo qua.
Un’altra cosa che provai a fare, al pianterreno e al sottoterra della palazzina, è stato un centro sociale-biblioteca, uno spazio meraviglioso di seicento metri quadri, che adesso è occupato da bar, un centro scommesse, sedi di partito… Appena entrammo cominciammo a usare in maniera informale quello spazio per i bambini facendo attività di vario genere. Dopo un po’ di tempo proposi un progetto al Comune di Napoli, perché mi ero stancato di aspettare. Ma in realtà il centro è andato avanti finché noi ci abbiamo fatto attività spontanee. La biblioteca non è mai partita, perché le intenzioni erano altre, ovvero di far passare un po’ di tempo per poi permettere a un assessore, che non mi ricordo manco più chi era, di fare un’altra roba. Questa roba implicava che i partiti si mettessero d’accordo e ognuno avesse la propria sede lì dentro. Dopo sono venuti gli altri, bar e centro scommesse compresi. È divertente che nel corso degli anni i partiti hanno cambiato tutti le sigle, ma non schiodano mica… E poi le attività commerciali, una roba assurda. Una parte fu data a Expert e poi al bar, gente che paga, se pagano, una cifra ridicola, sfruttando quelle che erano state le nostre battaglie.
La sconfitta esiste, e ci vogliono mesi per metabolizzarla. Perché tu nelle cose ci metti impegno, ci metti tre anni per far piantare venti alberi e uno stronzo qualsiasi poi li taglia in sei ore. Ma la sconfitta è sociale, non è solo mia. In questo quartiere la componente più “borghese” ha sempre vissuto chiusa in casa, un’interazione non c’è mai stata. Perché loro vivono nella paura, nel terrore di quelli che considerano barbari: anche se io lo conosco, non c’è niente da fare, ne ho paura. E così il divario sociale si ingrandisce. Anche se c’è da dire a loro parziale difesa che tu non ti puoi rivolgere nemmeno alle istituzioni, perché l’istituzione sta con la camorra, da sempre, e qui te ne accorgi ogni giorno.
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