Bix, Jerry e il signor Igor
Ovvero, come può un’ottica di precisione viaggiare a ritroso nel tempo, trovarsi sul letto di morte di un fragile trombettista bianco, e salvargli, ancora per poco la vita? Niente paura, si tratta di un disco…
… Un bel disco, per spiegare il perché però bisogna prima capire da dove cominciare e di cosa esattamente parlare. Andiamo con ordine.
Il lavoro è di Mauro Ottolini, che qui si presenta con la sua Sousaphonix band composta da 11 elementi ( Mauro Negri, Vincenzo Vasi, Dan Kinzelman, Paolo Botti, Danilo Gallo, Zeno De Rossi, etc.), che con lui fanno dodici.
Lui si sa, suona il trombone ed è uno dei più brillanti ed eclettici jazzisti italiani del momento. Per chi non seguisse molto il jazz diciamo che è quello col cappello che suona il trombone –anche- nella band di Vinicio Capossela. Il disco in realtà sono due, due CD, per una durata totale di 85 minuti suddivisi in venti tracce, il che lascia intuire uno sforzo produttivo e compositivo niente male, ma poi sbirciando meglio si scopre che Ottolini di queste tracce in effetti ne firma una soltanto, e che le altre sono distribuite più o meno procapite tra Stravinsky, La Rocca, Victor Young, Blind Willie Johnson, W.C. Handy, Hoagy Carmichael, Bix Beiderbecke, e altri. Non si capisce.
Il titolo, Bix Factor, potrebbe far pensare a un lavoro dedicato a Bix Beiderbecke, un omaggio come si dice, ma l’ipotesi non regge, c’è un solo brano di Bix in scaletta. Per cominciare a capire qualcosa bisogna allora tirar fuori il libretto che accompagna i dischetti, dove oltre a tutte le solite cose relative a missaggio, ringraziamenti, eccetera, ben quaranta pagine sono occupate da un racconto: Bix Factor, racconto fantastico scritto da Mauro Ottolini e Vanessa Tagliabue Yorke. Lei prima non l’avevamo citata ma è anche una delle due –bravissime- cantanti della band. L’altra è Stephanie Ocèan Ghizzoni. Insomma, capita che musicisti in vena di romanzerie approfittino del libretto per buttarci dentro anche un raccontino scritto qua e là.
Non c’è niente di male a leggerselo, magari però prima si fa intanto la recensione del disco, giusto per non parlarne un anno dopo. In questo caso però è diverso, perché già dalle prime pagine del racconto fantastico si capisce che libro e disco in realtà non sono separabili. Cioè, lo sono, ma sarebbe come vedersi Les Triplettes de Belleville senza l’ausilio della colonna sonora e viceversa. Doppio lavoro quindi, bisogna leggerselo tutto il libro, che non è proprio un librettino. Venti capitoli per venti tracce musicali, non fa una piega. Ma è un’operazione fondamentale, perché è solo a questo punto che il tutto finalmente risulta chiaro, e si può quindi usufruire della complessità del lavoro nella sua interezza.
Prima era solo un bel disco, anzi diciamolo pure, un gran bel disco, insolito per il panorama italiano, inciso magnificamente, e perche no? candidabile pure a disco dell’anno con buone probabilità di successo. Insieme però diventano un’altra cosa, una sorta di terzo elemento, finale e sommatorio, che stravolge le leggi aritmetiche e ottiene cinque da due più due. Geniale.
Il racconto è una mirabolante metafora che coglie in modo intelligente una porzione di spirito di questo presente e ne trattiene con passione la parte offesa, quella mancante. Il respiro è quello di un Triste, Solitario y Final ambientato nella musica americana degli anni Trenta, qua e là mischiato con cazzate stile Blues Brothers. Scritto, sembrerebbe, tutto d’un fiato, bene, quasi senza però voler mostrare pretese letterarie. Con un pizzico di immaginazione lo si può leggere anche come un film, irresistibile nel ritmo, e con una strepitosa colonna sonora. Chissà se qualche regista stavolta troverà il coraggio di farlo.