giovedì, Novembre 21, 2024
Cronaca

All’Università di Catania… Mi laureo in Propaganda

Sono stati migliaia gli iscritti all’Uni­versità di Catania a ricevere, lunedì 17 settembre, la mail elettorale in cui un giovane, tale Daniele Di Maria, invita­va a votare Maria Elena Grassi, diri­gente scolastico dell’istituto secondario Lucia Mangano di Acireale, candidata alle prossime regionali in Sicilia per l’Udc, partito che sostiene Rosario Crocetta insieme al Pd.

Una email non richiesta, classico spam elettorale. Solo che questa volta è stata inviata dai server dell’Università di Cata­nia come è ben visibile nel codice della email. Parte il tam-tam sui social net­work, e la Grassi, sentita telefonicamente sembra sorpresa. Ma si scusa: «I miei so­stenitori», sostiene la ormai ex candidata, ritiratasi dalla competizione elettorale proprio a seguito di questo scandalo, «hanno fatto tutto da sé, non ne sapevo nulla, e mi scuso con chi ha ricevuto la mail non richiesta».

Peccato che Daniele Di Maria non sia solo un semplice ammiratore, ma il figlio della Grassi, come scoprono ben presto i ragazzi del Movimento studentesco cata­nese visitando i locali del Rettorato mar­tedì 18. Le stanze sono piene di santini elettorali della professoressa. Del resto proprio a fianco del rettore Antonino Recca, ex coordinatore regionale del par­tito della Grassi, lavora Nino Di Maria, marito della Grassi e padre dello «stu­dente» Daniele.

Alcuni studenti denunciano il fatto alla polizia postale e chiedono spiegazioni all’Ateneo, che tuttavia tace. A parlare in­vece è nuovamente Daniele Di Maria, il figlio della candidata. E lo fa ancora una volta via email. Si difende puntando sul­la libertà del web, ma non evita di allega­re anche in questo caso il santino eletto­rale della madre.

Come abbia fatto Daniele Di Maria a utilizzare gli indirizzi email dell’Ateneo è oggetto di una indagine della Procura di Catania. Il sostituto procuratore Miche­langelo Patané ha infatti iscritto Di Maria nel registro degli indagati per violazione della legge sulla privacy, un’imputazione che potrebbe costargli il carcere da tre mesi a tre anni

Il rettore: “Una ragazzata”

Come abbia fatto Daniele Di Maria a utilizzare gli indirizzi email dell’Ateneo è oggetto di una indagine della Procura di Catania. Il sostituto procuratore Miche­langelo Patané ha infatti iscritto Di Maria nel registro degli indagati per violazione della legge sulla privacy, un’imputazione che potrebbe costargli il carcere da tre mesi a tre anni

L’uso del database dell’università per inviare gli indirizzi sembra tutto fuorché una «ragazzata», definizione usata dal rettore Antonino Recca per archiviare la vicenda. Recca minimizza, si giustifica nascondendosi dietro errate considerazioni tecniche. Ma in realtà la sua difesa fa acqua da tutte le parti.

«Chi si collega dall’ateneo, anche da rete wireless, utilizza i nostri server di posta», spiega Recca in una email inviata ai docenti il giorno successivo allo scop­pio del Mailgate. Un’eventualità facil­mente smentita dal codice della email che, esaminato da un utente mediamente esperto, mostra chiaramente che il ragaz­zo non era fisicamente collegato alla rete dell’Università, ma aveva solo usufruito del server email per inviare il messaggio a gran parte degli oltre 50 mila iscritti all’Università di Catania.

Con tanto di autorizzazione

Qualcuno all’interno dell’Università, insomma, ha abilitato l’indirizzo email di Di Maria fi­glio, garantendogli l’accesso all’intero archivio di contatti dell’ateneo. Ipotesi confermata da fonti interne all’Ateneo e che apre un quadro preoccu­pante. Perché le normali prassi ammini­strative di Unict prevedono moduli da riempire e permessi a tempo anche solo per inviare una mail tra gli uffici. E da quando è in vigore il nuovo statuto che centralizza i poteri del rettore «tutte le comunicazioni passano per l’amministra­zione centrale», come conferma un do­cente. Era dunque impos­sibile inviare l’email, se non con l’inter­vento dei tecni­ci d’Ateneo, au­torizzati normalmente proprio dall’amministrazio­ne o dal Retto­rato. Lo stesso po­sto dove lavora il padre di Di Maria, ma­rito dell’ex candidata Udc Maria Elena Gras­si.

«Nessuno ha avuto accesso ai dati de­gli studenti», dichiara Lucio Maggio, di­rettore amministrativo dell’Università di Catania. Una risposta che non esclude al­tre imputazioni.

«E’ un caso di scuola, tanto che è stato oggetto di parere all’ultimo esame di av­vocatura – spiega Luca Caldarella, procu­ratore legale – Un carabiniere che, sfrut­tando la sua posizione, accedeva all’ana­grafe per individuare potenziali patentati per l’autoscuola di sua moglie al fine di inoltrare materiale pubblicita­rio».

Funzionari coinvolti?

Se si accertasse la responsabilità di un funzionario dell’uni­versità, potrebbe scattare l’accusa di abu­so d’ufficio, punito, ricorda Caldarella, «con la reclusione da sei mesi a tre anni e il licenziamento». La polizia postale di Catania, su ordine della Procura, starebbe indagando pro­prio in questa direzione.

In attesa della verità giudiziaria, il Mo­vimento studentesco catanese chiede di «conoscere le responsabilità del Rettore nella vicenda», mentre l’associazione Ar­ché pone pubblicamente cinque domande a Recca. Una su tutte: «Maria Elena Grassi è la sua candidata?».

Lei intanto s’è ritirata

In realtà la Grassi è ormai un’ex candi­data, visto che il giorno dopo la notizia dell’avvio delle indagini, ha annunciato il suo ritiro. «Le polemiche di questi giorni – co­munica – mi inducono a ritirarmi dalla imminente campagna elettorale e a conti­nuare a prestare il mio servizio nel mon­do della scuola». Secondo la segreteria provinciale dell’Udc si è trattato di «una decisione autonoma».

Ma, come spiega un avvocato penalista – che preferisce re­stare anonimo – «il ritiro della candidatu­ra servirà a salvaguardare il figlio Danie­le Di Maria, nel caso si accertasse il rea­to di violazione della privacy, e il padre nel caso di una imputazione per abuso di ufficio».

Secondo il legale, venendo meno lo scopo dell’invio della email, ovvero la promozione della candidatura, cade an­che il vantaggio derivante dall’occupa­zione di una determinata posizione all’interno dell’amministrazione. Il caso del Mailgate, dunque, potrebbe essere ar­chiviato senza mai arrivare a un proces­so.

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