Agnese Borsellino e la verità negata
Dietro i silenzi un infinito coraggio
E’ un pomeriggio di settembre del 1967 quello che unisce per la prima volte le strade di Agnese Piraino Leto e Paolo Borsellino.
Un incontro casuale nello studio di un notaio, un “colpo di fulmine” come nelle più belle favole. Poi i primi anni di matrimonio, i più spensierati, seguiti dall’omicidio Basile, che cambierà per sempre le loro vite. Un avvertimento lanciato da Cosa nostra per il giovane giudice che avrebbe dato alla mafia parecchi grattacapi. Arriva la prima scorta, insieme alle lettere di minaccia contro Paolo. Sono anni carichi di preoccupazioni, in cui i Borsellino sono costretti ad evitare qualsiasi luogo pubblico per la loro sicurezza.
L’isolamento diventa sempre più pesante, ma chi rimarrà al fianco di Paolo e Agnese lo farà perché, come loro, crede fermamente nel non voler fare “il gioco dei mafiosi”. E poi il confino all’Asinara, l’apertura del Maxiprocesso, l’attentato a Falcone, in un’escalation di eventi che porterà Paolo Borsellino a quel pomeriggio di fine luglio.
“Quando sono venuti gli altri sei uomini della scorta – ricordava la signora Agnese – è andato dalla sua mamma perché doveva accompagnarla dal medico. Ha baciato tutti, ha salutato tutti, come se stesse partendo.
Lui aveva la borsa professionale, e da un po’ di giorni non se ne distaccava mai.
Allora mi è venuto un momento di rabbia, quando gli ho detto: ‘Vengo con te’. E lui ‘No, io ho fretta’; io: ‘Non devo chiudere nemmeno la casa, chiudo il cancello e vengo con te’. Lui continuava a darmi le spalle e a camminare verso l’uscita del viale, allora ho detto: “Con questa borsa che porti sempre con te sembri Giovanni Falcone”.
Del suo amico fraterno, Paolo avrebbe condiviso la morte di lì a poco insieme agli “angeli custodi” della scorta.
Definita forse un po’ frettolosamente “la donna del silenzio”, Agnese, se pur con una dignità e una discrezione fuori dal comune, ha sempre chiesto a gran voce di conoscere la verità sugli eventi che portarono all’uccisione del marito, una pedina sacrificabile all’interno di quel “gioco grande” descritto da Falcone, nel quale “menti raffinatissime” trattarono con la mafia per sopravvivere al transito dalla Prima alla Seconda Repubblica.
E nelle sue parole, nelle sue poche apparizioni in pubblico, si legge la forza e la determinazione di una donna che seppe trasformare il suo dolore in un amore ancora più grande. Amore per i suoi tre figli, Lucia, Manfredi e Fiammetta, e per i giovani che Agnese vedeva come “i soli in grado di raccogliere davvero il messaggio che mio marito ha lasciato”, “capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia” e che attraverso di lei conobbero quel giudice dal sorriso sulle labbra, un sorriso che neanche le bombe riuscirono a cancellargli.
Depositaria di molte delle confessioni del marito, Agnese contribuì ad arricchire con importanti tasselli il mosaico sui misteri della strage di via D’Amelio (le cui indagini sono seguite dai pm della Procura di Caltanissetta, ndr) partendo proprio dal ricordo di una frase che, col senno di poi, risulterà essere profetica: “la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno” le confessò un giorno Paolo, come anche “che c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato. Ciò mi disse – ricordava Agnese – intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la ‘mafia in diretta’, parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato”.
Una trattativa che in realtà si divideva in due, e Paolo “fu ucciso per la seconda trattativa.
La prima trattativa c’era già stata.
La seconda doveva cambiare tutto, fare arrivare sulla scena nuovi personaggi”.
“Mi disse anche che il gen. Subranni era ‘punciuto’ (punto in un rito di affiliazione a Cosa nostra, ndr) Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Ma mi disse che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l’Arma dei Carabinieri era intoccabile”.
Per non parlare del mistero dell’agenda rossa, da cui Borsellino non si separava mai: “Quell’agenda è stata recuperata sul luogo della strage ma, come si sa, è scomparsa.
Se esistesse ancora e se fosse nelle mani di qualcuno potrebbe essere usata come un formidabile strumento di ricatto”.
Le indagini che ruotano attorno all’uccisione del giudice sono state pesantemente depistate a causa dei falsi pentiti (Enzo Scarantino, Francesco Andriotta e Salvatore Candura ndr) che portarono in dibattimento una falsa verità. “Le certezze che si credevano acquisite sulla strage si sono rivelate false – affermava Agnese – Perché è accaduto? Perché sono venduti e comprati tutti”, “C’è il segreto di Stato, cose atipiche, per cui trovare la verità non è facile”.
Per trovarla, Agnese non esita ad invocare anche l’aiuto dei pentiti: “Chiedo in ginocchio ai collaboratori di giustizia, complici e non della strage di Via D’Amelio, di far luce sui mandanti e su coloro che hanno voluto la strage annunziata” scriveva Agnese Borsellino in un appello inviato ad Annozero.
“Dire la verità è un’azione di grande coraggio..
Aiutateci, la vostra collaborazione sarà un atto di amore, le prove in vostro possesso fatte pervenire agli onesti restituiranno dignità a questa nazione e ci renderanno liberi dai ricatti e da quel sottobosco in cui gli interessi personali coincidono con la cultura della morte”.
Agnese Borsellino non smise mai di nutrire un profondo rispetto per lo Stato (quello vero) che Paolo difese per tutta la vita, salvo essere lasciato solo nel momento di maggior pericolo. E la storia ci insegna che nel nostro Paese è più facile rendere omaggio ai morti che non proteggere i vivi. Come per Falcone, Borsellino e tanti altri personaggi scomodi vittime della mafia, non sono mancate le rispettose condoglianze da parte delle istituzioni, tutte in prima fila nella Chiesa di Santa Luisa di Marillac: “Una donna straordinaria, che non dobbiamo dimenticare”, un “simbolo di sobrietà, coraggio e rispetto” di una donna che “con il marito ha incoraggiato generazioni di italiani a credere nella giustizia”, “esempio di forza e coraggio” nonché emblema di un “impegno civile in difesa della democrazia e della legalità” che sempre dimostrava “sobrietà e misura in tutte le occasioni di pubblica celebrazione della figura del marito, la personale gentilezza e amichevolezza”.
Quelle stesse istituzioni pochi giorni dopo avrebbero osservato un rispettoso minuto di silenzio per il senatore a vita Giulio Andreotti, deceduto il giorno dopo la signora Agnese. “Nei momenti di commozione, tutti piangono sulle bare dei morti” mentre non si riscontra “altrettanto impegno ad andare incontro alle richieste che vengono dai vivi” ha commentato Antonio Ingroia al funerale della vedova Borsellino.
Richieste che ancora devono essere esaudite, domande che ancora aspettano una risposta.
“Voglio sapere la verità, perchè è stato ucciso, chi ha voluto la sua morte e perchè lo hanno fatto e non voglio nient’altro” diceva Agnese. “Ho tanta pazienza e tanta fiducia. Magari subito no, ma con il tempo la verità si saprà, perchè gli italiani come me vogliono sapere perchè è stato ucciso un uomo che era il simbolo della bontà”.
Ora che è di nuovo insieme a Paolo, il modo migliore per ricordarla è dedicarle il nostro impegno nella ricerca di quella verità che per tutta la vita le è stata negata.