Abitare le città dei ricchi
La domenica sera, dall’aeroporto di Torino Caselle partono due aerei per Catania, a distanza di pochi minuti, sempre pieni. Servono ai parenti e agli amici degli emigrati per tornare a casa. La domenica sera e all’alba del lunedì, partono altrettanti aerei da Catania per Torino, servono agli emigrati per tornare a lavorare dopo aver passato il fine settimana in famiglia. Un esercito di maestre, professori, bidelli, funzionari pubblici, impiegati del sud che raggiunge il nord per motivi di lavoro. Uno sciame di giovani studenti a cui hanno spiegato che le università del nord offrono maggiori prospettive. Si stima che siano ventimila i siciliani che ogni anno si trasferiscono in altre zone d’Italia e del mondo per trovare lavoro, futuro e dignità. Un paese di ventimila abitanti che ogni anno scompare dalla Sicilia.
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In questi giorni Catania sta discutendo il nuovo piano urbanistico generale. L’ultimo è stato approvato nel 1969. All’epoca gli abitanti di Catania erano 410.000 e il piano prevedeva un’espansione fino a 530.000 abitanti nel successivo ventennio. Fu una corsa alla cementificazione che portò all’edificazione di vani per 670.000 abitanti. Negli ultimi decenni la tendenza si è radicalmente invertita e non è stata per nulla compensata dall’incremento di popolazione dei comuni dell’hinterland. Nel Comune di Catania al 31 dicembre 2022 sono stati censiti 299.000 abitanti. Secondo le previsioni dell’Istat nel 2041 la popolazione della città di Catania sarà di 268.000 abitanti. Fino agli anni ‘80 da tutta la Sicilia orientale si accorreva a Catania per le opportunità di lavoro, per la vita sociale, per la grande Università. I piccoli comuni agricoli si svuotavano e Catania si riempiva di nuovi cittadini. Oggi anche Catania è diventata periferia dalla quale fuggire.
Anno |
1969 |
2022 |
2041 |
Abitanti di Catania |
410.000 |
299.000 |
268.000 |
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“Altri cinquemila – abitanti censiti all’anagrafe di Palma di Montechiaro – sono emigrati, lavorano nelle miniere di Fei o della Germania, nelle miniere di carbone del Belgio, nelle campagne della Francia. Se non fossero emigrati, un giorno o l’altro la gente qui avrebbe cominciato a scannarsi (…) Si vive con le rimesse di questi cinquemila uomini dispersi sulla faccia della terra, i quali inviano ogni mese una media di cinquantamila lire a testa, cioè complessivamente trecento milioni. Tutta l’economia vive su quei trecento milioni che servono a pagare i bottegai, gli artigiani, le tasse, i cibi, i vestiti, l’acqua.(…) Ogni tanto qualcuno degli emigranti, i più anziani o stanchi, se ne torna con un piccolo gruz- zolo, acquista una piccola casa (…). Se gli rimane un po’ di denaro, con una tragica caparbietà torna ad investirlo nell’acquisto di un pezzo di terra”. Queste parole scriveva Giuseppe Fava il 31 luglio del 1966 a proposito di Palma di Montechiaro, paese in provincia di Agrigento, paradigma di una Sicilia retta sul lavoro degli emigranti, su soldi guadagnati e risparmiati al nord e trasferiti e spesi al sud. Oggi è tutto cambiato.
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Oggi trasferirsi a lavorare in alcune città del nord impedisce di mandare soldi a casa. Abitare le città dei ricchi significa non farsi bastare lo stipendio: la colpa principale è degli affitti delle case. In città come Milano, Bologna, Torino, le case in affitto a un prezzo inferiore ai mille euro al mese (condominio compreso) sono quasi introvabili. Per rendere la vita compatibile con i prezzi degli affitti, sono cambiate le prospettive e le abitudini: sono migliaia gli adulti, con contratti di lavoro stabili, costretti a condividere le case con i colleghi, a vivere in una sola stanza con bagno condiviso, senza alcuna prospettiva di ospitare la famiglia o di accogliere i figli. Le famiglie del ceto medio con bambini – ormai impoverite – sono espulse dal mercato immobiliare e devono allontanarsi dai grandi centri. Proliferano soluzioni abitative che fino a qualche anno fa avremmo unanimemente giudicato indegne per esseri umani: monolocali di 15 metri quadri affittati a peso d’oro, dove se si va a letto bisogna chiudere il tavolo da pranzo, dove non esiste un divano, dove non si può ospitare nemmeno un amico. Lo stipendio da impiegato, statale o privato, non basta per vivere e avere casa in città trasformate in spazi per ricchi.
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Quello che un tempo era ceto medio, si ritrova povero. Chi si trasferisce dal sud al nord scopre immediatamente che il salario non basta. Per pagare l’affitto serve l’aiuto della famiglia d’origine. Si è rovesciato il modello dell’emigrazione dal meridione e si è giunti al paradosso: non sono più i soldi del ricco nord a mantenere le famiglie del sud ma sono le famiglie del sud a finanziare la speculazione immobiliare del sempre più ricco nord. Bisogna essere ricchi persino per emigrare.