A Roma batte il cuore della ‘ndrangheta
Chi ha il coraggio di sostenere ancora che le associazioni mafiose del bel Paese sono forti e imbattibili nei loro luoghi e regione di origine (l’elenco è noto: Palermo e provincia, ma anche Catania da tempo e altrove, secondo l’esperienza dei giudici e degli studiosi) ma a Roma hanno difficoltà – per il concentrarsi nella capitale – di tutte le forze dell’ordine possibili e di tutte le magistrature del Paese e anche di magistrati, come l’attuale procuratore della repubblica presso il Tribunale di Roma che proviene da una lunga esperienza di fronte alle imprese della mafia calabrese e siciliana, come il dottor Pignatone, non si rende forse conto di quanto l’associazione calabrese altrimenti nota come ndrangheta è attiva e presente proprio nella capitale nazionale detta pure la “città eterna”. E invece – proprio oggi – la squadra mobile della Capitale, guidata da Renato Cortese, e il Gico della Guardia di Finanza hanno arrestato un gruppo criminale autonomo ‘ndranghetista, ma con salde radici nel cuore della ‘ndrangheta, San Luca in provincia di Reggio Calabria. E conferma la centralità di Roma nella geografia criminale italiana. Accanto alla Lombardia, alla Liguria, all’Emilia Romagna – regioni dove la presenza della ‘ndrangheta è confermata ormai da moltissimi atti giudiziari – ecco apparire nella sua grande chiarezza la cosca della capitale, autonoma e invisibile ma obbediente alle formule più antiche e tradizionali. Con riti di affiliazione celebrati nelle carceri. I trenta arresti rivelano almeno tre gruppi di ‘ndrangheta e nascono da due inchieste che si sono coordinate negli ultimi due anni. La prima, condotta dalla Squadra Mobile guidata da Renato Cortese, aveva messo a fuoco l’omicidio di Vincenzo Femia, ‘ndranghetista di peso ucciso dalle parti della Chiesa del Divino Amore a porta Capena, vicino al Circo Massimo, il 24 gennaio del 2013. La seconda inchiesta-in mano al Gico della Guardia di Finanza diretto dal colonnello Gerardo Mastrodomenico -era partita da una sofisticata intercettazione di una rete segreta di BlackBerry usata da un gruppo criminale per commerciare centinaia di chili di cocaina. Un sistema pensato per essere impenetrabile, bucato grazie a un pincode finito nelle mani degli agenti della Guardia di Finanza. Insomma nel cuore di Roma ci sono tre gruppi ormai radicati e attivi da anni: i Pizzata-Pelle-Crisafi (formato da Giovanni Pizzata, Bruno Crisafi, Massimiliano Sestito, Gianni Cretarola, Francesco Pizzata, Antonio Angelo Pelle, Andrea Gusinu, Salvatore Manca, Stefano Massimo Fontolan, Mario Longo), i Crisafi-Martelli (organizzazione finalizzata alla gestione della rete del narcotraffico ramificata in Italia, Colombia, Spagna, Olanda e Marocco, costituita da Bruno e Vincenzo Crisafi, Luigi Martelli, Renato Marino, Adamo Castello) e ancora i Rollero (costituita da Marco Torello e Andrea Rollero, Giuseppe D’Alessandri, Giuseppe Langella, Roberta d’Annibale). Femia era considerato il referente dei Nirta di San Luca nella capitale. Attivo da molti anni nel traffico di cocaina si stacca troppo dalla casa madre e questo era già costato la vita a Carmelo Novella, il boss ucciso in un bar di San Vittore Olona nel 2008. A luglio arriva l’arresto di Gianni Cretarola, un ndranghetista di peso con alle spalle una lunga sfilza di reati commessi in Liguria dove si era stabilito. Dopo pochi giorni inizia a collaborare. Gli inquirenti sequestrano un documento in codice con segni a prima vista indecifrabili. Ma il collaborante mette in ordine i segni e svela la chiave di quello che sarà battezzato come il “codice di san Luca”. “Una bella mattina di sabato santo-incomincia il documento-allo spuntare e non spuntare del sole, passeggiando sulla riva del mare vitti una barca dove stavano tre vecchi marinai che mi chiesero che cosa stavo cercando. Io gli risposi sangue e onore. Mi dissero di seguirli e li avrei trovati. Navigammo tre giorni e tre notti fino ad arrivare nel ventre dell’isola della Favignana.” Insomma una sorta di estratto della mitologia ndranghetistica ad uso degli affiliati.” E disegna l’organigramma preciso della ‘ndrina: Giovanni Pizzata era “capo-società”, Massimiliano Sesito e lui il “mastro di giornata”. Insomma, una descrizione completa dell’associazione calabrese caratterizzata nello stesso tempo dall’arcaicità delle formule e dei riti usati ma, nello stesso tempo, da anni protesa alla massima modernità con l’acquisizione di miliardi di cocaina tramite il traffico degli stupefacenti e con un rapporto costante e diretto con i cartelli colombiani che diffondono al mondo (che può pagarlo) un mare della preziosa polvere bianca.