giovedì, Novembre 21, 2024
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A proposito di vendita dei beni confiscati alla mafia

Quando si parla di decisioni importanti che lo Stato deve prendere in materia di contrasto economico-finanziario della mafia, l’impressione è che, più che il ragionamento razionale sullo stato dell’arte, quello che prevale ciclicamente sembra una sorta di moda che, come si dice a proposito dei lanci dei prodotti dell’abbigliamento, “fa tendenza”.

C’è stato un momento in cui, a fronte di una granitica convinzione diffusa di indisponibilità di vendita di beni immobili, si lanciasse l’idea della solita italica panacea della soluzione di tutti i problemi dell’assegnazione e della gestione dei beni confiscati con il solito evento, magari da concretizzare con l’invenzione di una struttura, o sovrastruttura che dir si voglia, diretta dal solito uomo o donna della provvidenza di turno, al comando della soluzione miracolistica.

Insomma, l’esatto contrario di quelle che dovrebbero essere, soprattutto nelle Pubbliche Amministrazioni, le iniziative per la soluzione delle situazioni da affrontare, più che con mirabolanti annunci provvidenziali, con poco suggestivi, ma rigorosi, studi dei problemi e attivazioni di adeguate procedure.

In questi percorsi così poco rutilanti, ma seriamente normali, tutte le componenti e i soggetti in campo dovrebbero esprimere proposte derivate dal loro specifico know how, senza confusioni di ruoli come è successo, per esempio, quando anche meritorie associazioni della società impegnata, più che svolgere una funzione necessaria di stimolo delle attività degli Uffici competenti, dettavano improbabili ricette di riforme amministrative di cui, oggettivamente, non comprendevano quasi nulla, come risultava evidente.

Così è nata l’apologia dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata che, oltre a rappresentare l’ennesima sovrastruttura di cui, francamente, non si sentiva il bisogno nelle nostre già elefantiache Amministrazioni, faceva dilagare il conformismo per il quale, nell’auspicare il miracolo dell’Agenzia, si lanciava la solita caccia alle streghe nei confronti di chi si permetteva di muovere qualche riflessione appena razionale rispetto ad un intervento dello Stato che non era certo nuovo e la cui efficacia era tutt’altro che scontata.

Tanto per essere chiari, i punti di criticità rappresentati dall’Amministrazione dell’Agenzia del Demanio dello Stato – precedentemente competente anche nella materia dei beni confiscati che, oggettivamente, non mostrava di seguire con sufficientemente motivazione e determinazione – non erano né più ne meno di quelli di altri uffici, compresi quelli giudiziari. Difficoltà ed inadeguatezza da colmare senza pensare di risolvere i problemi solo facendo una cosa nuova, magari con i presupposti sbagliati della precedente struttura.

Ma cosi fa normalmente nell’Italia dei miracoli incipienti. Piuttosto che colmare il gap di un ufficio dello Stato, fornendo formazione e motivazioni ad una Struttura che aveva già nella sua cassetta degli attrezzi tutti gli arnesi necessari per intervenire efficacemente, si crea un altro ufficio, con un altro Direttore e un’altra dotazione di Personale che, dato che la costruzione della nuova Agenzia doveva, in linea con la logica degli interventi mirabolanti, rasentare l’effimero, veniva prevista largamente inadeguata con circa 30 addetti per la gestione di tutto il patrimonio confiscato.

Ma d’altra parte, davanti alle grandi spinte di tendenza che volevano la miracolistica nuova Agenzia cosa si vuole valessero le grigie valutazioni che riguardano i contenuti professionali e le dotazioni di un ufficio?

Meglio lanciare la nuova frontiera della nuova Agenzia che, nella peggiore delle ipotesi, ci sarebbe voluto del tempo prima che si scoprisse che, piuttosto che migliorare, magari aveva peggiorato la situazione. In questo modo nessuno si sarebbe ricordato più dei tribuni infuocati di sacro furore che inneggiavano alle meravigliose sorti progressive della novella Agenzia che, poverina, nel senso di anche scarsamente dotata anche di risorse finanziarie, era destinata già all’origine a rimanere orfana di padri e madri perché non si sarebbe saputo mai chi l’aveva invocata e concepita.

Così vanno le cose in questo Paese e, d’altra parte, anche Giovanni Falcone era un po’ bizzarro e, nonostante il suo serio impegno per l’innovazione in ambiti che la richiedevano urgentemente, come nel caso del coordinamento giudiziario delle indagini, era insensibile alle mirabilie del nuovismo a tutti i costi.

Infatti, quando si rese conto che il suo Ufficio era inadeguato a seguire indagini economico-finanziarie, con i loro risvolti bancari e amministrativi, non invocò per questo aspetto tecnico una nuova, mega Struttura, ma fece qualcosa sicuramente di più grigio e mediaticamente inefficace: si mise a studiare e si organizzò le necessarie collaborazioni. Questo consentì al suo Ufficio, prima decisamente inadeguato, di guadagnare autorevolezza per la graduale crescita delle competenze e, quindi, titolato a pressare, a ragion veduta, le altre Amministrazioni interessate, pubbliche o private che fossero.

Però, bisogna dire che adesso si sta provando a correre ai ripari per la nuova Agenzia, almeno sul fronte della dotazione di Personale, dato che sembra si stia pensando al trasferimento di un numero di funzionari dello Stato distaccati che non ci sarebbe da meravigliarsi se provenissero dalla vecchia vituperata Agenzia del demanio e Uffici similari perché alla fine non si può che scoprire che restano comunque loro quelli che hanno maggiori competenze sul campo.

Invece di creargli le condizioni per svolgere le loro funzioni nelle vecchie sedi di lavoro, che comunque detenevano le competenze e le specificità dell’Amministrazione del Demanio dello Stato, verosimilmente li porteranno in un altro Ufficio, magari dislocato in diverse città che, da parte loro, continueranno a litigare tra loro per accaparrarsi almeno una Struttura periferica. Come si dice, il nuovo che avanza.

Quindi, adesso, proprio da quella nuova Agenzia, nata per realizzare la capacità di gestione e assegnazione dei beni immobili e aziendali, secondo la razionalizzazione illuminata apportata dalla legge 109 del 1996, arriva l’invito pressante a vendere i beni, aprendo la stura al conformismo dilagante circa il nuovo verbo dei beni confiscati. Infatti, adesso vendere i beni è decisamente bello e non è più disdicevole da sostenere nei talk show.

Il fatto più sorprendentemente singolare della diffusione di questo nuovo orizzonte della gestione dei beni confiscati alla mafia riguarda la motivazioni principale fornita pubblicamente dall’autorevole Direttore della nuova Agenzia, Prefetto Giuseppe Caruso, che sostiene che la vendita dei beni confiscati è un falso problema perché le Forze dell’ordine e la Magistratura sarebbero talmente professionali e talmente allenate da risequestrare il bene, eventualmente ricomprato da mafiosi o da loro prestanome.

Davanti ad affermazioni così perentoriamente semplificanti, francamente si rimane molto perplessi, anche perché gli Inquirenti – i più bravi e impegnati sul campo – sono consci delle difficoltà di questo tipo di indagini e, per esempio, un Magistrato esperto in questo campo, come la Presidente della Sezione prevenzione del Tribunale di Palermo – D.ssa Silvana Saguto – afferma, senza troppa parafrasi, che “la cessione dei beni è da scongiurare” .

Gli fa eco un altro Magistrato di notevole esperienza come il Dr. Domenico Cozzo che nega che la acquisizione di patrimoni ridiventati illeciti sia così semplice come ottimisticamente qualcuno sostiene.

Ovviamente, nessuno, Magistrati compresi, nega l’eventualità di dovere apportare alla normativa di riferimento correzioni ed integrazione che si rendessero necessarie, se non altro, per far fronte alle inevitabili insidie che il tempo presenta rispetto a qualsiasi prodotto dell’ingegno umano, compreso l’Ordinamento Giuridico.

Ma salutare la vendita dei beni confiscati alla mafia come una panacea dei problemi di utilizzo economico dei beni stessi è parlare di altro, dichiarando, di fatto, l’arresa sostanziale dello Stato di fronte alla sua incapacità di gestire certe situazioni e la sua indifferenza rispetto al delicato universo simbolico – tanto importante nel contrasto alla mafia – che paleserebbe questo evidente abbandono del campo.

Ci mancava la forza politica che, in cerca di un difficile rilancio elettorale, spende i soldi del finanziamento pubblico – sempre più intoccabile – con una poderosa campagna pubblicitaria in cui tra le ricette – ancora una volta miracolistiche – si piazza la vendita dei beni come una delle misure per risanare il bilancio dello Stato.

Se l’arrembante campagna presenta una certa forza di impatto, non sembra, però, dimostrare senso della misura, anzi delle misure.

Infatti, se si volesse seriamente parlare di risorse da destinare al risanamento del deficit pubblico, forse il riferimento non dovrebbe riguardare quanto si confisca effettivamente alla mafia, ma quanto è il reale patrimonio stimato del sistema politico-affaristico-mafioso.

Insomma, tutto un guazzabuglio in cui il conformismo della vendita sembra così arrembante da coinvolgere, almeno in termini di prudenza nell’esprimersi, anche associazioni che ritenevano la battaglia contro la vendita dei beni confiscati un baluardo incedibile.

Ma come si sa, il conformismo è contagioso e perfino attorno a tavoli istituzionali di altissimo livello a Palermo, triste “capitale” dei beni confiscati, è capitato si sostenesse anni fa, con preoccupante supponenza, l’impossibilità giuridica di utilizzare gli appartamenti confiscati alla mafia come strumenti di cui dotare i Comuni per combattere un’emergenza sociale gravissima come quella abitativa.

Un’autentica idiozia, ancorché professata da illustri feluche di tutte le Amministrazioni interessate.

Insomma, il “vizio” di trascurare la straordinaria valenza dell’impatto sociale della destinazione dei beni confiscati viene da lontano e anche adesso viene trascurato quanto rivolgere le risorse confiscate alla mafia alle emergenze sociali – dalla casa, ai presidi sociali, all’occupazione – sia il vero moltiplicatore socio-economico di queste politiche.

Tuttavia, va detto con scomoda chiarezza che in questo campo non andrebbero fatti sconti ai beneficiari di queste risorse il cui impegno sul territorio, la qualità dei loro interventi e la loro capacità di creare sistema dovrebbero essere valutati rigorosamente e secondo indicatori economici che, pur tenendo conto di un necessario differenziale etico, siano in grado di stabilire una reale ricaduta in termini di benefici per la società sul piano socio-culturale.

Come ogni politica seria che si voglia mettere in campo, è necessario che si parta da un assioma, ossia dall’affermazione che non esistono beni che non possano essere messi a reddito, ovviamente con una valutazione economica-sociale e culturale, secondo la natura e la condizione dei beni stessi.

Se questa incapacità di gestione complessa e di sistema socio-economico non esiste non bisognerebbe rimandare il tutto ad una nuova struttura secondo la filosofia che sta all’origine di ogni forma di paralisi politico-amministrativa, ossia sostenendo che non è il caso di fare intanto una cosa perché ce ne sempre una più importante da fare. E le nuove strutture sono come le ciliegie, una tira l’altra.

E’ da evitare assolutamente in questo campo delicatissimo e strategico per il contrasto della mafia il nuovismo a tutti i costi e gli annunci da effetti speciali. 

Probabilmente, la strada è quella del potenziamento e dell’indirizzo delle professionalità presennti, ma finalizzato alla creazione di sinergie per affrontare i problemi in termini di sistema sul territorio.

Purtroppo, tanto di quanto si legge adesso sull’assegnazione e la gestione dei beni confiscati alla mafia – spesso a metà tra lo sconforto rassegnato degli insuccessi e l’individuazione della soluzione miracolistica – porterebbe un attento e caustico osservatore della realtà come Ennio Flaiano a dire che anche in questo campo “la situazione è grave, ma non seria”.

salvatore.ognibene

Nato a Livorno e cresciuto a Menfi, in Sicilia. Ho studiato Giurisprudenza a Bologna e scritto "L'eucaristia mafiosa - La voce dei preti" (ed. Navarra Editore).

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