12 febbraio 2004, la strana morte di Attilio Manca: un suicidio che non sembra tale
Sono trascorsi dieci anni da quel 12 febbraio 2004, quando venne trovato senza vita nella sua casa di Viterbo, città nella quale si era trasferito un paio d’anni prima per lavorare all’ospedale Belcolle. Attilio Manca, un urologo siciliano nato a San Donà di Piave ma trasferitosi da bambino con la famiglia a Barcellona Pozzo Di Grotto (Messina), venne ucciso da un mix di eroina, Tranquirit – uno psicofarmaco a base di diazepam – e alcol e, svolti i primi accertamenti, si parlò di overdose e suicidio.
Sulla vicenda, l’iter giudiziario è stato tormentato, tra richieste di archiviazione e indagini a carico di personaggi minori. E la famiglia ritiene che di omicidio si tratti. Nello specifico, che si tratti di omicidio di mafia. La tesi del suicidio di Attilio Manca, infatti, non sembra giustificare la fine di una promessa della medicina. L’urologo, malgrado la giovane età, era già noto per aver effettuato per primo in Italia interventi alla prostata in laparoscopia, tecnica appresa durante cicli di specializzazione all’estero. A Viterbo, poi, aveva un buon rapporto con quasi tutti i colleghi e i paramedici.
Single, una vita brillante, una carriera già decollata, Attilio Manca non sembrava dunque avere alcun motivo per gettarsi nelle spire degli stupefacenti né per togliersi la vita. Solo nei suoi ultimi giorni è sembrato preoccupato, anche se il motivo rimane ignoto. Ma cosa gli accadde quel giorno di dieci anni fa?
Nessuno vede più Attilio Manca dal 10 febbraio 2004. A differenza del solito, dà forfait ai colleghi, che si trovano per cena. E non si presenta nemmeno il giorno successivo, l’11 febbraio, a un appuntamento a Roma, al policlinico Gemelli, dove deve incontrare Gerardo Ronzoni, primario di urologia di cui era stato assistente. Quella mattina però, vero le 9 e mezza, telefona alla madre e le chiede di far riparare la motocicletta che custodiva nella casa di villeggiatura, a Tonnarella (Messina). Strano, ha pensato la donna, dato che Attilio non l’avrebbe utilizzata prima di agosto. E strano anche perché il mezzo era in perfette condizioni. Ma su questo punto ci si tornerà.
Lì per lì, dunque, impossibile dare peso alla sua richiesta a cui segue di nuovo il buio. Cosa accada infatti nella notte tra l’11 e il 12 febbraio non si sa. C’è solo un vicino di casa che racconta qualcosa. Racconta che poco dopo le 22 di quell’ultima sera sentì la porta dell’appartamento del medico aprirsi e chiudersi. Poi più nulla fino alla notizia alla famiglia. La macchina investigativa, nel frattempo, si è messa in moto, per quanto a tutt’oggi non abbia risposto alle domande che la famiglia continua a porre.
Inoltre, con il trascorrere del tempo, inizia a profilarsi l’ombra di cosa nostra. In un’intercettazione ambientale effettuata nell’ambito dell’operazione antimafia Vivaio, si scopre che il “capo dei capi”, Bernardo Provenzano, era a Tonnarella, la località indicata da Attilio Manca alla madre parlando della motocicletta (da rilevare anche che di quell’ultima telefonata non rimarrà traccia nei tabulati). Non sapendo di essere ascoltata dagli inquirenti, la sorella del boss di Barcellona Pozzo di Grotto, Carmelo Bisognano, parla con un immobiliarista e dice che avevano ragione i Manca a dire che il figlio aveva visitato Provenzano. «Tutti sapevamo che iddu era qua», a Tonnarella. A conferma ci sono anche gli elementi raccolti dai carabinieri del Ros, che lo collocano in quel periodo nel convento di Sant’Antonino.
Facciamo però un passo indietro. Il primo dubbio sul legame tra Provenzano e Attilio Manca arriva dopo i funerali. Il padre di un amico del giovane chiede ai genitori se siano sicuri che il medico non abbia mai visitato il boss firmando così la sua condanna a morte. La famiglia, di primo acchito, reagisce con incredulità e accantona la faccenda. Ma un anno più tardi, il 20 febbraio 2005, la Gazzetta del Sud pubblica le dichiarazioni di Ciccio Pastoia, il capomafia di Belmonte che si suiciderà in carcere un paio di giorno dopo. Dichiarazioni secondo cui un urologo siciliano si sarebbe occupato di Provenzano nel suo rifugio. A questo punto la famiglia chiede – a tutt’oggi inutilmente – che venga accertata l’identità del medico di cui parla il boss.
E poi c’è un’altra coincidenza che ruota intorno a Marsiglia, città da cui Attilio Manca chiama i genitori. «Sono qui per un intervento», dice nell’ottobre 2003, quando anche Provenzano è lì per sottoporsi a un intervento alla prostata. A ciò si aggiunga il clima ostile che i Manca respirano a Barcellona Pozza di Grotto. Se appena dopo la morte di Attilio sono in molti a stringersi intorno alla famiglia, presto l’atmosfera cambia. Inoltre iniziano a comparire storie infamanti sul giovane medico, ribadite – e smentite – anche nel processo “Mare Nostrum”.
I genitori reagiscono, nominano un legale di fiducia, Fabio Repici, che ne sostituisce uno precedente e che è noto per difendere i familiari delle vittime di mafia (ha seguito tra gli altri il caso di Graziella Campagna, la diciassettenne assassinata a Saponara a fine 1985). Nel frattempo giunge l’esito della perizia medico-legale. Una perizia che, se conferma il setto nasale deviato, parla anche di lividi diffusi e di due fori da siringa – gli unici sul corpo del giovane – sul braccio sinistro mentre Attilio era mancino e incapace di usare la destra. Ma non basta: ai polsi e alle caviglie ha segni come quelli lasciati da una corda o da un altro strumento utilizzato per immobilizzare l’uomo, e ha un testicolo gonfio, come se avesse preso un calcio.
Anche nella casa del giovane ci sono tracce di colluttazione e un peso da sollevamento spaccato. Inoltre, su un tavolino accanto al letto, c’era la sua borsa di lavoro con gli strumenti da chirurgo e un ago da sutura pronto all’uso mentre Attilio non portava mai a casa gli attrezzati usati in ospedale.