26 gennaio 1979, Mario Francese, il giornalista che raccontò la mafia e la sua evoluzione
Ucciso per “lo straordinario impegno civile con cui la vittima aveva compiuto un’approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia degli anni Settanta”. Si parla di un giornalista, Mario Francese, che nacque a Siracusa nel 1925 e a nome del quale è stata creata una fondazione in ricordo anche del figlio Giuseppe, morto nel 2002. Qui, dopo l’iniziale impiego all’Ansa come scriventista, la collaborazione al quotidiano La Sicilia di Catania e capo dell’ufficio stampa all’assessorato regionale ai lavori pubblici (dove prende coscienza del “sistema” che gestisce appalti e denaro), ecco come viene descritto il cronista:
Alla fine degli anni Cinquanta Girolamo Ardizzone lo chiamò al Giornale di Sicilia. Dopo qualche tempo gli fu affidata la cronaca giudiziaria e in questo settore si lanciò con tutta la sua generosa passione diventando in breve tempo una delle firme più apprezzate e uno dei più esperti conoscitori delle vicende mafiose. Nel 1968 fu posto davanti all’out-out: la Regione o il Giornale di Sicilia. E non ebbe dubbi: scelse di restare in trincea, diventando nel frattempo giornalista professionista.
Da quel momento, dalla strage di Ciaculli all’omicidio del colonnello Russo, non c’è stata vicenda giudiziaria di cui non si sia occupato, cercando una «lettura» diversa e più approfondita del fenomeno mafia. Il suo è stato un raro esempio in Sicilia di «giornalismo investigativo». Fu l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella. Il primo a capire, scavando negli intrighi della costruzione della diga Garcia, l’evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia corleonese.
Non a caso parlò, unico a quei tempi, della frattura nella «commissione mafiosa» tra liggiani e «guanti di velluto», l’ala moderata. E Cosa nostra non l’ha perdonato, fulminandolo la sera del 26 gennaio 1979 davanti casa, mentre stava rientrando dopo una dura giornata di lavoro.
Furono i corleonesi, a iniziare da Totò Riina, a volerlo morto perché – dirà la sentenza di condanna – faceva il suo lavoro senza cedere a condizionamenti, senza dimostrare compiacenza per nessuno e “capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa nostra”.