“Giornale popolare dei giovani”
Ai tempi della Pantera (l’ultimo grande movimento studentesco del Novecento) girava in Italia uno strano giornale interamente fatto da ragazzi. Che cosa c’entra con I Siciliani? Ecco…
All’inizio degli anni Novanta esisteva in Italia un settimanale di sinistra, “Avvenimenti”, che vendeva alcune decine di migliaia di copie. La redazione era a Roma, in una piazzetta silenziosa poco distante dalla stazione Termini. Un appartamento al primo piano di un edificio elegante.
Nella prima stanza dopo l’ingresso, erano posizionati il caporedattore e l’Inviato. In quella stanza entravano a stento le loro scrivanie. Il residuo spazio si animava ogni pomeriggio del viavai dei redattori di un giornale giovanile, “l’Alba”. nato da una costola del settimanale.
I numeri di questo “giornale popolare dei giovani” uscirono una volta ogni due mesi tra la fine del ’92 e l’inizio del ’94. Era fatto da una trentina di persone tra i venti e i venticinque anni, sparse in tutta Italia, che raccoglievano gli articoli, selezionati con un complicato sistema di votazioni, e li filtravano alla redazione centrale.
Pur essendo autonomo dal settimanale, il giornale dei giovani si serviva dei suoi locali, dei suoi computer, delle sue fotocopiatrici, dei suoi fax e telefoni, della sua sala riunioni e della sua tipografia.
Anche per questo, in quell’appartamento piuttosto angusto, noi redattori-infiltrati non eravamo visti di buon occhio dai veri redattori. Dovevano pensare, spesso a ragione, che la maggior parte di noi non aveva nulla di concreto da fare lì dentro, se non curiosare, incontrarsi con gli amici o darsi delle arie. Ma il caporedattore ci proteggeva, ed anzi era stato lui che ci aveva aperto le porte della redazione. Da quando era cominciato il movimento della Pantera, aveva aperto la sede del giornale a periodici incontri e assemblee, incoraggiando la produzione di fogli informativi e concedendo l’appoggio logistico per comunicati stampa e volantini.
Università in subbuglio
All’inizio degli anni Novanta la Pantera aveva messo in subbuglio le università italiane, minacciate dai tentativi di privatizzazione. L’agitazione era cominciata a Palermo, ma il nome del movimento era ispirato alla vicenda di una pantera in carne e ossa, che in quei giorni era scappata da un circo di Roma e si aggirava liberamente per le strade della capitale. Nacque così l’idea di affidare un certo numero di pagine direttamente agli studenti, lasciando che fossero loro a deciderne i contenuti, senza alcun filtro redazionale.
Dopo la Pantera venne il movimento pacifista, in opposizione alla prima guerra del Golfo voluta da Bush padre. Nel frattempo in molte città italiane nascevano i primi centri sociali. I redattori di quel giornale provenivano in gran parte da esperienze del genere: collettivi studenteschi, pacifismo, centri sociali. E naturalmente dal movimento antimafia.
Letti e votati nelle scuole
Gli articoli giravano via fax, venivano letti e votati nelle scuole, ma prima di essere pubblicati bisognava riscriverli più volte, fino a quando non diventavano leggibili “da un ragazzino di quattordici anni”.
Con una certa regolarità si svolgevano le riunioni, a cui partecipava sempre qualche redattore da fuori Roma. Si discuteva del giornale, ma anche di politica, di cortei e delle sorti del “movimento”.
Dopo le dieci di sera, quando i redattori del settimanale erano rientrati a casa da un pezzo, ci impadronivamo dei loro computer e delle sedie girevoli e, in un silenzio sconosciuto nelle ore agitate del giorno, ci mettevamo a scrivere e correggere i nostri articoli.
Un po’ alla volta – ascoltando i racconti del caporedattore, leggendo libri e fotocopie consunte dall’uso che giravano in redazione – imparammo che un giornale poteva essere qualcosa di più che un semplice contenitore di articoli, fotografie, disegni, titoli e occhielli, per quanto ben assemblati; e che il mestiere non era solo quella routine impiegatizia di telefonate e scrivania che in poco tempo rendeva cinici e distanti dalla realtà quelli che dovevano raccontarla.
Era già successo in Sicilia
Ma soprattutto, apprendemmo che quel che stavamo facendo su scala nazionale con il nostro giornale, era già accaduto su scala siciliana qualche anno prima, con “Siciliani giovani”: un giornale di giovani, con articoli che riguardavano la vita quotidiana di ragazze e ragazzi nelle città e nei paesi siciliani, raccontata attraverso le “storie di vita”.
Il punto di forza stava nella varietà delle storie e nella diversità dei punti di vista che, a voler contare solo sul versante “professionale”, avrebbero richiesto il dispiegamento di decine di giornalisti; e poi la diffusione capillare nei luoghi d’incontro, a cominciare dalle scuole; ma anche la capacità e l’energia per organizzare manifestazioni di protesta oppure campagne “a favore” di qualcosa, come quelle per i centri giovanili autogestiti o per la confisca dei beni mafiosi da destinare a un uso sociale. Tutte cose – l’intervento nelle scuole, le feste, le proposte, i dibattiti – che andavano tenute in comunicazione tra loro, e in contatto ancora più stretto con il giornale.
Una reazione spontanea
Il giornale dei giovani siciliani era nato quasi come una reazione spontanea, e come rilancio su un terreno concreto, dopo l’omicidio di Giuseppe Fava, il direttore dei Siciliani, un mensile che in appena un anno di pubblicazioni aveva destato tali preoccupazioni tra i potenti dell’isola da indurli a far tacere drasticamente il suo principale animatore.
Il settimanale romano, di cui utilizzavamo le infrastrutture all’inizio degli anni Novanta, nasceva a sua volta anche dall’esperienza appassionata e tragica che si era consumata qualche anno prima in Sicilia. Insomma, nulla era casuale.
Insomma, nulla era casuale
C’era un esile filo che teneva insieme le cose che noi sperimentavamo per la prima volta, sospesi sul filo della nostra insicurezza, ad altre accadute in passato. E tutte quelle storie diventavano ben presto una storia comune, creavano una discendenza, una responsabilità.
Molti anni dopo, quando cominciammo a stampare un giornale di cronache, disegni e reportage che raccontasse la vita quotidiana di Napoli e la mettesse in collegamento con i fatti che accadevano in Italia e nel mondo, tutto quel che avevamo assimilato in quegli anni, spesso inconsapevolmente, gli esempi, il metodo, gli insegnamenti silenziosi che avevamo ricevuto allora, risalirono lentamente in superficie.
Il mestiere di giornalista
Un po’ alla volta, mentre impaginavamo gli articoli, discutevamo gli argomenti da trattare, presentavamo agli altri il giornale, cominciammo a renderci conto che, in effetti, non importava tanto il numero delle copie vendute o quanti abbonati avesse il giornale (certo, anche quello contava), ma piuttosto quanto fossimo capaci di accogliere i nuovi redattori, di incuriosire i più giovani, di creare per loro uno spazio per crescere, per lavorare con gli altri, per cominciare a intendere il mestiere in modo diverso da quello solito che gli propinavano altrove; insomma, accanto all’informazione era fondamentale l’organizzazione, oltre a scrivere gli articoli era fondamentale correggerli e riscriverli insieme; oltre a testimoniare il cambiamento il mestiere di giornalista poteva ambire a diventarne strumento.
E ci scoprimmo a ripetere gesti dimenticati, pensieri che avevano pensato altri, parole che avevamo ascoltato quasi venti anni prima.