La mafia al vertice
Un giornalista deve essere libero. L’intuizione, la cultura più approfondita, una capacità straordinaria di analisi dei fatti non sono sufficienti a fare di un giornalista un grande giornalista se è assoggettato a un potere, a un qualsiasi condizionamento, o se talvolta potrebbe cedere alla tentazione dell’autocensura.
Per essere libero un giornalista deve avere una concezione etica del giornalismo,: servire la verità e andare alla ricerca della verità, soprattutto la più nascosta. Questa è stata, ed è, la lezione di Pippo Fava, il siciliano Pippo Fava. Che al coraggio univa la semplicità, la chiarezza, l’umanità. Nello scrivere, nel parlare, nel vivere.
Mentre giornalisti più conosciuti battevano un pezzo perlopiù fumoso ed astratto sulla mafia un paio di volte all’anno, rimanendo al riparo delle loro scrivanie nelle ricche redazioni del Nord, Pippo Fava fondava – a Catania – un giornale militante antimafia che, nonostante gli infiniti rischi, parlava un linguaggio estremamente diretto. Il suo linguaggio.
Di questo linguaggio Fava diede l’ennesima dimostrazione in un’intervista a Enzo Biagi per la Rai, meno di un mese prima di essere assassinato: “I mafiosi – disse – stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri. I mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione”.
Perché il problema della mafia non è dato soltanto dalla droga e dal riciclaggio del denaro, ma è assai più grande e terribile. Come disse ancora Fava nella stessa occasione “il problema della mafia è un problema di vertice e di gestione della nazione”.
Era il dicembre 1983. La trattativa Stato-mafia, che avrebbe comportato, tra l’altro, l’uccisione di Paolo Borsellino, era ancora lontana a venire, ma nel governo, in Parlamento, nelle banche sedevano i Previti e i Dell’Utri dell’epoca. Pippo Fava ci ha dato gli strumenti per riconoscerli e smascherarli, nonché la forza per non avere paura.