Anni difficili
Ci sono momenti nella vita in cui avvengono cose importanti, eventi che ti cambiano e tracciano il tuo cammino futuro. Questo coincide spesso con i propri venti anni.
È successo anche a noi, a quel gruppo di ragazzi che all’inizio degli anni 80 dello scorso secolo incontrarono un bravo maestro, Giuseppe Fava, e impararono da lui – senza retorica – il mestiere di cronista e anche un modo onesto di stare nel mondo. Cioè di far valere le proprie ragioni, di affermare se stessi, di capire le cose che accadono. E per un giornalista autentico questo vuol dire raccontare la realtà che ti sta attorno.
La cosa rara di quella esperienza, sfociata in un giornale chiamato I Siciliani, fu che attraverso quelle cronache noi scoprimmo le cose non dette che ci circondavano, la nostra città Catania, la nostra terra la Sicilia e il nostro Paese l’Italia, e facemmo scoprire ai nostri lettori le trasformazioni profonde e cupe di quei luoghi. Noi scrivevamo cose che gli altri omettevano, rompevamo un silenzio assordante a Catania, Sicilia, Italia.
Erano anni di stragi di stato, di grandi omicidi di mafia, anni di P2, anni in cui – nella nostra città – prefetti inauguravano i negozi del boss e capi della squadra mobile andavano a caccia col boss e da lui compravano auto, anni in cui le imprese colluse con la mafia venivano salvate da pm che manomettevano i casellari giudiziari per permettere a quella imprese di partecipare agli appalti, anni di giunte comunali e governi regionali collusi che negavano l’esistenza della mafia che li pervadeva e gestiva gli appalti. Anni di governi nazionali che si facevano forti dei voti scambiati con la mafia. Anni senza cultura: nell’università c’era gente che faceva eco a politici e pm, “la mafia non esiste”, e scriveva saggi per dare nobiltà teorica a quella tesi negazionista.
Talvolta, non sempre, accade che il mestiere di cronista sia utile. E non solo a chi lo fa: ecco, I Siciliani fu un giornale utile perché raccontava la realtà che tutti vedevano e nessuno ammetteva. I Siciliani scriveva che “il re è nudo”. Se tutti tacciono e nessuno racconta, la cronaca non esiste. Non esiste come la mafia, appunto. Noi, cronisti ventenni, non voltavamo le spalle e il taccuino (oggi avremmo in mano l’ipad) dall’altra parte.
Il paradosso professionale di quel giornale, trenta anni fa fondato da Giuseppe Fava, fu che riuscimmo a fare notizie uscendo una volta al mese. Fare i cronisti era facile, perché eravamo i soli a farlo, avevamo un’autostrada vuota davanti a noi, eravamo gli unici che ci correvano dentro e si guardavano intorno.
Ma la storia del giornale I Siciliani è anche un modello che continua a parlare ai ragazzi di oggi, per un’altra e più umana ragione. Nella Sicilia dei primi anni Ottanta, quel gruppo di ventenni vissero il loro attimo fuggente grazie a un bravo maestro e impararono liberamente, fuori da ogni regola di raccomandazioni, favori, scambi. Ora io ho 55 anni e sono padre di tre figli nell’era della recessione e della cupa mancanza di futuro per i ragazzi. E guardando all’oggi, ripenso a quel giornale come un miracolo civile per noi: avevamo una chance, potevamo esprimerci, lavorare, raccontare, fare, giocarci un’occasione. La nostra occasione civile. In fondo, cosa può volere di più e cosa può chiedere di diverso – anche alla fine del 2013 – un ragazzo poco più che ventenne?