giovedì, Novembre 21, 2024
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La storia, il segno

Ormai mancano poche settimane. Chi ha a cuore la lotta alla mafia e la libertà di informazione si appresta a ri­cordare Pippo Fava a trent’anni dal suo assassi­nio.

Che avvenne a Catania la sera del 5 gennaio 1984. Quel delitto più che chiu­dere la bocca al direttore dei Si­ciliani ser­vì a fargli gridare con la voce cento volte più forte ciò che aveva gridato per anni in so­litudine: che la mafia esiste­va a Cata­nia, che aveva l’appoggio delle istitu­zioni, a partire dal Palazzo di giusti­zia, che era in­trecciata strettamente con i cele­bri “ca­valieri del lavoro”, da lui sopranno­minati i cavalieri “dell’apocalis­se mafio­sa”.

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Da allora, sia pure per sbalzi e progres­sioni, l’Italia civile aprì meglio gli occhi. E vide e sentì quel che fino a quel mo­mento aveva avvertito come realtà evane­scente e folclorica. Era mafia che uccide­va, e parlava anche con la voce del sinda­co. Di quel signore inamidato che perfino ai funerali ebbe l’ardire pavido o compli­ce di negarne l’esistenza.

Trent’anni. Trascorsi in un’altalena di prese di coscienza, di movimenti giovani­li, di sussulti di massa e di riflussi infin­gardi. Di memorie vive e tonificanti e di oblio umiliante, per Catania naturalmente. Dai ragazzi che il giorno dell’anniversario si arrampicano uno sull’altro in via dello Stadio per cambiarle nome con un mera­viglioso cartello di cartone (“via Pippo Fava”) agli studenti di uno dei migliori li­cei cittadini che ventotto anni dopo pro­prio non sanno (e non per loro colpa) chi sia quel giornalista catanese di cui parla loro un ospite venuto da Milano.

Fava è oggi un punto di riferim­ento per la cultu­ra e il giornali­smo anti­mafiosi.

Il suo giornali­smo è anzi un mo­dello per la ine­sausta ca­pacità che ebbe di de­nunciare la pre­senza dei clan e dei loro af­fari non a rimorchio delle inchieste giudi­ziarie, ma nono­stante l’assenza di inchie­ste giudizia­rie. Di concepire il giornalista non come un onesto e curioso parassita dei pubblici ministeri ma come un orgo­glioso difen­sore in pro­prio della qualità dei rap­porti ci­vili, come fonte autono­ma di conoscenz­a e ve­rità.

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Qui sta la sua gran­dezza. E que­sta idea del gior­nalismo egli sep­pe trasmet­tere a una nuo­va leva di giovani e giova­nissimi giornali­sti, disseminando le pro­prie con­vinzioni e la propria etica profess­ionale tra giovani che ancora non era­no nati in quel 1984 così lontano e così vici­no, come è eviden­te a chi legga queste stesse pagine..

Ritrovarsi a Catania il 5 gennaio non sarà dunque scelta convenzionale. Sarà un modo per riaffermare l’esistenza di una comunità intellettuale che vede nella sto­ria di Pippo Fava un segno, un insegna­mento, un monito. Non “severo”, come si dice, ma sanguigno e dirompente.

Per dare un senso più preciso alle pro­prie azioni rimettendosi a confronto con la storia quasi leggendaria di quell’uomo che seppe essere a un tempo trascinatore e lupo solitario.

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