Un giardino per Lea
“Sono qui i giardini Lea Garofalo?” Dove abitava? Qual è il palazzo che era occupato dai mafiosi?
Frotte di ragazzi entrano nel piccolo spazio verde e guardano curiosi; la storia di Lea e di Denise è diventata la storia di tutti, il simbolo di un riscatto, l’orgoglio di una ribellione irriducibile, ” loro hanno fatto quello che dovremmo fare tutti quando ci accorgiamo di soprusi e ingiustizie” dicono sottovoce due ragazzine ai loro amici.
Siamo in via Montello, è il pomeriggio del 19 ottobre, giorno dell’inaugurazione dei giardini “Lea Garofalo”, proprio di fronte al numero 6 dove abitavano, mamma e figlia, le due donne che si sono ribellate al codice d’onore della “ndrangheta a Milano,
Paola, che fin dalla scuola superiore, con altri studenti e qualche universitario ha partecipato alla costituzione del presidio di Libera “Lea Garofalo”, ha il compito di introdurre :
“E’ stato un momento di particolare intensità stamattina il funerale pubblico e solenne di Lea.
Quando ho sentito Denise dire: “Mamma grazie! Tutto ciò che hai fatto, lo hai fatto per me”, mi sono venute le lacrime; Ho pensanto che Lea ha avuto coraggio per tutti noi che speriamo in un mondo di giustizia e libero dalla corruzione e dalle mafie; la storia di Lea e di Denise ci riguarda e interroga tutto il modo di essere della città di Milano, ecco perché intitolare questi giardini a Lea Garofalo, proprio in questo quartiere, è per noi un impegno e una promessa”.
Una ragazza come loro
Denise è la loro coetanea di ventun anni che ha trovato il coraggio di denunciare il padre e gli altri uomini responsabili della morte di sua mamma; in questi due anni, prima solo i giovani volontari di Libera, poi gruppi scout, ragazzi delle parrocchie, associazioni di paese, classi di scuole e singoli cittadini hanno adottato con il cuore e il pensiero questa ragazza che vive in un luogo nascosto, sotto protezione, l’hanno accompagnata nei difficili momenti del processo, da lontano ma sempre vicini, sia quando il dibattimento è dovuto ricominciare dall’inizio e Denise è dovuta tornare a deporre, perché il Presidente del collegio giudicante era stato sostituito, sia quando gli avvocati della difesa hanno insinuato che Lea Garofalo non era stata uccisa, ma era fuggita in Australia, abbandonando la figlia per qualche avventura. Calunnie, insinuazioni, delegittimazioni che sono abituali nei processi di mafia, ma che sempre offendono e tentano di infangare la reputazione delle vittime.
Dare vita ai giardini “Lea Garofalo” rappresenta l’impegno dell’amministrazione comunale di fondare un luogo di memoria, dedicato a questa donna straordinaria, che ha saputo mettere a repentaglio la sua vita per denunciare ciò che tutti vedevano e di cui nessuno osava parlare a viso aperto;
“ Me lo ricordo alla fine degli anni 80 cosa succedeva” dice il signor M. un anziano giocatore di bocce,
“I calabresi stavano nel loro cortile con un tavolino al centro e giocavano a carte e bevevano, erano i padroni e tutti eravamo timorosi, Anche quando vennero gli elicotteri e perquisirono tutto, nessuno di noi osò parlare e dire qualcosa, neanche l’amministrazione comunale intervenne anche se le case del fortino erano occupate da tempo…”
Oggi il giardino profuma del sapore dell’impegno civile e della partecipazione, è affollato da molti giovani, ma non solo, ci sono volontari delle associazioni ambientaliste, gli abitanti del quartiere , gli anziani del vicino campo di bocce, famiglie con bambini, gli insegnanti delle scuole, tutti partecipano alla piantumazione dell’aiuola della memoria, alla scrittura dei pannelli, al racconto dei familiari delle vittime della Lombardia, all’aperitivo offerto con i prodotti dei beni confiscati.
Alle 17,15 dopo l’intervento dal palco di Nando dalla Chiesa, presidente onorario di Libera, centinaia di persone depongono un fiore e Emma e Elisabetta del Presidio Lea Garofalo scoprono la targa posta all’entrata dei giardini; la scritta, concordata con l’associazione ambientalista “Giardini in Transito”, associazione che da anni si oppone al progetto di un parcheggio proprio nell’area verde, dice: “Lea Garofalo, testimone di giustizia, vittima della ‘ndrangheta, morta per la dignità e la legalità”.
“Una bandiera per Lea”
Migliaia di fiori, un applauso interminabile, la tromba del maestro Kolher creano un effetto irripetibile, mentre nel palazzo di fronte una signora al balcone applaude e nelle case vengono esposte le bandiere di Lea con la scritta “vedo, sento, parlo”, in un quartiere che fino ad ora non ha visto, né sentito, né parlato.
La campagna “Prenota e esponi una bandiera per Lea” è stata proposta dai ragazzi e dai volontari di Libera Milano, partita in sordina e tra molte titubanze ha conquistato la città , le associazioni, il mondo delle cooperative e le istituzioni pubbliche, le scuole e molte università.. Ora le bandiere sono chieste da commercianti e da ambulanti dei mercati, ma per il momento quelle a disposizione non sono più sufficienti.
Una ragazza calabrese
Lea Garofalo era nata a Petilia Policastro, nel crotonese, terra di “ndrine in guerra per il controllo del territorio e del traffico di droga. Il padre era stato ucciso quando aveva otto mesi. Il fratello, Floriano Garofalo era un boss temuto e rispettato. Sarà poi ammazzato l’8 giugno del 2005; tre suoi parenti erano stati, uno ucciso a colpi di lupara, altri due bruciati vivi in macchina. A 13 anni aveva conosciuto, Carlo Cosco, a diciassette era scappata da lui a Milano. Con Carlo aveva pensato di costruire una famiglia e ricominciare una nuova vita altrove.
Del suo ambiente Lea non sopportava più la falsità dei silenzi, i racconti della nonna che alludevano all’infinita serie di vendette e di intrighi, non poteva più digerire che nei ristoranti e nei locali di Pagliarelle la trattassero con la deferenza delle “donne di rispetto, non voleva più che le spiattellassero con falso rispetto “la sorella di Floriano non paga”.
Con la piccola Denise
A Milano era arrivata nel 92 con la piccola Denise di appena un anno, erano andate ad abitare in Via Montello; ben presto si era resa conto che il suo compagno Carlo aveva, anche lui, solidi legami con le famiglie di Petilia e di Crotone e che anzi, grazie al legame con lei, sorella di un uomo d’onore, aveva acquisito punti nella gerarchia mafiosa.
Attraverso violenze e traffici di ogni sorta Carlo Cosco era arrivato ben presto ad esercitare il controllo del traffico e dello spaccio di cocaina nella zona di piazzale Baiamonti..
L’amore per la figlia portò Lea a radicalizzare il cambiamento totale della prospettiva di vita .
Denise non doveva avere il suo stesso destino, anzi non doveva più frequentare l’ambiente familiare milanese, arricchitosi di numerosi arrivi di parenti e amici, molti legati da vincoli di affiliazione e di interessi e guadagni illeciti; via Montello 6 era diventato il centro di un potere immenso, abitato da “invisibili” senza permesso di soggiorno e da cinesi che pagavano affitti imposti e si sottomettevano ad ogni angheria, era un luogo di impunità, dove si preparava la droga e si facevano affari, luogo di violenze e di soprusi, di omertà e di schiavitù.
Lea non ne poteva più di quella situazione andò via e dopo iniziò a collaborare con i magistrati; Le sue denunzie non ebbero seguito e non furono ascoltate,” la lacunosità delle investigazioni non ha permesso che all’attendibilità delle sue dichiarazioni seguissero dei riscontri invidualizzati”(Giudice Gennari, gip) .
Il processo di appello si è concluso con la condanna all’ergastolo dei responsabili della morte della testimone di giustizia e a 25 anni per Carmine Venturino, il giovane pentito che, con le sue confessioni ha permesso il ritrovamento dei resti a San fruttuoso, nei pressi di Monza.
La condanna ha costituito un fatto importante, ma il fatto che il reato di associazione mafiosa, il 416 bis non compaia nella sentenza riflette la difficoltà che Milano e il nord Italia hanno di riconoscere pienamente la presenza e il radicamento dell’organizzazione mafiosa..
La ribellione di una donna
La storia di Lea è in questo senso esemplare : una donna si ribella alle leggi e al codice della sua famiglia e lotta con tutte le sue forze per liberare se stessa e sua figlia da un destino inesorabile, cade in povertà e viene lasciata sola e la sua denunzia non trova i riscontri, gli approfondimenti e le attenzioni necessarie.
E’ la storia di sempre che si ripete, di invisibilità dell’ organizzazione mafiosa che non viene riconosciuta come tale per molto tempo e per questo può agire indisturbata e mietere le sue vittime.
Nella coscienza collettiva
La discussione pubblica e le aperte prese di posizione, in particolare quelle dei ragazzi e dei giovani volontari e coetanei di Denise” in tutto il paese, hanno fatto crescere nella coscienza collettiva la consapevolezza della natura mafiosa di questo delitto e del pericolo che comporta il processo di colonizzazione in atto della Lombardia.
Dal palchetto, eretto dal Comune per l’occasione, Paola e Giulio, a nome dei tanti ragazzi che, nei quartieri, nelle scuole, nei mercati, hanno gestito la campagna “una bandiera per Lea” spiegano, in conclusione della giornata proprio questa storia.
“Stamattina abbiamo visto la piazza gremita di persone che innalzavano la bandiera con il viso di Lea quasi come fosse un unico lenzuolo, quando ci siamo accorti di quanti ragazzi e ragazze sconosciuti del Volta , del Virgilio, del Molinari, del Leonardo , del Severi e tanti altri si adoperavano nei banchetti per offrire un fiore per Lea e per distribuire il segnalibro, voluto da Denise con la scritta in memoria della mia coraggiosa giovane mamma. In quel momento abbiamo pensato: siamo riusciti a ringraziare Lea e Denise per aver lottato per tutti noi e per averci dato la possibilità di capire. Ora il coraggio di Lea e di Denise alimentano il nostro impegno per far vivere un giardino comunitario contro la speculazione dei parcheggi privati”.