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Il giorno dell’alluvione

22 novembre 2011: sono passati due anni fa un’alluvione de­vastò la cit­tadina di Barcel­lona Pozzo di Gotto. Una giornata di trage­dia, ma anche di umana soli­darietà

Quando sono arrivato a Barcellona Pozzo di Gotto, a cinque giorni dall’allu­vione del 22 novembre, io non l’avevo una vanga. Ero venuto pensan­do un po’ scioccamente di poter dare un aiuto a mani nude. O forse no.

Ti accorgi di essere arrivato quando l’asfalto cambia colore, la macchina alza nuvole di polvere e ai lati della strada la gente sembra fare un po’ d’ordine nei ga­rage. Avresti detto di trovare una città bloccata nel fango, poi posteggi per un posto di blocco dei militari, ti inoltri a piedi, e capisci…

Il primo cumulo di fango mi arriva alla spalla. Perché il fango non viene subito portato via ma accumulato ad un lato della strada con le ruspe.

La giornata è calda e soleggiata, ma il colore della luce è quello che si vede quando il vento ci porta una traccia dei deserti africani: in Sicilia ci siamo abi­tuati. Il fango, secco dove sono riusciti a raschiarlo via, si è trasformato in una polvere sottile che pervade l’aria, militari e volontari hanno stivali alti e mascheri­ne davanti alla bocca.

Dietro la luce filtrata di giallo, col fan­go dell’incrocio segnato dai camion, il gruppo di soldati accanto alla montagna di fango e la ruspa in funzione, la mia mente ha già tirato uno scatto. Ma non tiro fuori la fotocamera.

“Hai una vanga”?

Sento che la mano sta toccando la bor­sa che custodisce la reflex, eppure la la­scio lì. Le case, i negozi, le macchine vanno liberate dal fango, e credo che do­vrei rendermi utile, mi vergogno di foto­grafare, penso che possa essere visto come il passatempo di chi non ha visto sparire una parte della propria vita in un giorno. Mi dirigo verso il comune, lì mi diranno che fare, intanto gli occhi si riempiono di scene di volontari che esco­no da cantine e magazzini salvando mer­ce e ricordi.

“Salve, sono venuto a dare una mano”, “Benissimo, hai una vanga?”.

“Distribuzione derrate alimentari” è scritto sul foglio appeso all’ingresso dell’aula consiliare del Comune trasfor­mata in magazzino.

Latte, pasta, salsa, biscotti… preparo le buste secondo il gruppo familiare che le richiede. Segno il cognome e l’indirizzo su un foglio. Perché ci sono persone che hanno perso proprio tutto, e per chi non ha neanche elettricità e gas mancano le scatolette.

Passano anche Servizio Civile, Croce Rossa e volontari. Per loro, panini e pasti pronti. Segno cognome e zona di inter­vento.

E mi sento inutile… potrebbero farcela anche senza di me. Nel frattempo penso agli scatti non fatti la mattina, e la foto­camera “brucia” nella sua borsa. “Scusa, qui siamo tanti, posso aiutare a liberare anche a mani nude”, “Prova alla fine delle scale, c’è un giornalaio che ha avuto problemi”.

Però stavolta, mentre esco dal comune e seguo le indicazioni della ragazza all’accoglienza, decido di fare qualche scatto.

“Si può aiutare anche a mani nude”

Alla fine delle scale c’è materiale por­tato dall’acqua a mucchi, però il giornala­io l’hanno già ripulito e più avanti un gruppo di soldati, tra cui delle ra­gazze, sta spalando fango a lato della strada. Tanto vale fare altre foto, sarò d’aiuto magari per un nego­ziante più avanti. Scatto e mi sento me­glio. E suc­cede anche qualcosa che non è nuovo, ma che non avevo mai vissuto così.

“Scusa, stai facendo delle foto? Allora fotografa anche ciò che un tronco portato dall’acqua ha fatto alla mia vetrina”.

Scheda

Quando i fotoreporter “restano umani”

I fotoreporter sono una strana razza di giornalisti: alcuni cercano soltanto im­magini “strappalacrime”, scene cruente di guerre nel mondo, o i morti ammaz­zati dalle mafie sui selciati delle nostre città, ma poi vanno via, con un po’ di ci­nismo e indifferenza, senza entrare nel­le questioni umane di ciò che fotografa­no.

Ma ci sono alcuni fotoreporter che hanno fatto un percorso politico su che cos’è realmente l’informazione, riesco­no a fotografare le scene dove si rac­contano le disperazioni umane e sanno quando riporre la fotocamera per spor­carsi le mani aiutando chi è in sofferen­za, e soprattutto restando umani. Il rac­conto e le immagini di queste pagine sono la storia di un giorno vissuto da uno di questi fotoreporter.

Giovanni Caruso

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