Un comitato contro le mani sulla città
Catania. Quartiere contro speculazione edilizia: chi vincerà?
In una calda serata estiva viene presentato alla cittadinanza il neonato “Comitato per San Berillo”. Un penetrante odore accoglie in una delle caratteristiche stradine del vecchio rione catanese, una di quelle “riqualificate” con un pavimento di pietra lavica e qualche luce soffusa qua e là. Basta girare l’angolo però, per accorgersi che si tratta solo di un caso isolato. Tutto attorno, infatti, le viuzze di San Berillo appaiono sporche e abbandonate.
Il progetto del comitato San Berillo nasce con le “mappe urbane”, progetto con il quale giovani ricercatori dell’università etnea hanno ricostruito con interviste e indagini l’antico volto del quartiere. L’interesse che molti abitanti hanno manifestato per il progetto ha spinto gli organizzatori a decidere di intraprendere un percorso politico con loro. Uno dei portavoce del comitato, Roberto Ferlito, spiega l’evoluzione: “Abbiamo pensato ad un percorso di mappatura di San Berillo con proposte di riqualificazione urbana, iniziando con alcune passeggiate per parlare con chi ancora oggi vive e lavora nel quartiere. Le passeggiate avevano lo scopo di creare un percorso di conoscenza di quello che era San Berillo, perchè crediamo che la storia di questi luoghi debba essere un pilastro per il loro risanamento. Tutto questo non può che avvenire con l’aiuto degli stessi abitanti. San Berillo è un luogo unico, un bene comune dei catanesi, e la sua riqualificazione non può essere un affare per pochi privati”.
Durante la serata vengono proiettati alcuni filmati del regista catanese Carlo Lo Giudice e di Maria Arena, che descrivono la storia del quartiere e l’incredibile stravolgimento edilizio di cui parleremo in seguito.
Viene raccontata un’antica San Berillo, cuore pulsante del tessuto economico catanese, piena di botteghe e negozi dove venivano praticati e tramandati antichi mestieri artigiani: liutai esperti nella produzione di chitarre e mandolini, costruttori di sedie e altre mobilie per la casa. In tanti ancora ricordano i maestri pupari che con le loro operette allietavano le serate dei catanesi nei teatri di allora, come il “Mongibello”, il “Famiglia”, il “Ventimiglia”. Preziose realtà produttive ormai scomparse in città, o meglio, fatte sparire con lo sventramento del quartiere, sacrificati agli altarini del cemento e dell’interesse privato.
Si racconta anche dell’altra San Berillo, quella proibita e misteriosa, ammantata di un fascino antico ancora oggi apprezzabile, che con le sue vie e vicoletti tanto rimanda alle atmosfere di Fabrizio de Andrè in una delle sue più belle canzoni. Fino agli anni ’50 centinaia di lucciole quotidianamente esercitavano il mestiere, quello più antico, prima che la legge Merlin lo relegasse all’illegalità e quindi allo sfruttamento. Quella zona di Catania era così frequentata che addirittura San Berillo veniva paragonata al Reeperbahn, il famoso quartiere a luci rosse di Amburgo. Oggi sono rimaste solo le prostitute più anziane, insieme a transessuali e ragazze africane. La zona del sesso catanese infatti ha trovato nuova ubicazione, spostandosi nelle periferie viarie della città e -complice un feroce racket- le italiane sono state sostituite da donne dell’est.
Durante la serata vengono letti anche i testi di Franco, omosessuale che da tempo vive nel quartiere. Lunghi capelli biondi, un viso che non sembra patire troppo le conseguenze dell’età che avanza inesorabile. Viene chiamato Franchina nel quartiere. Legge con calma i suoi testi, senza inflessioni dialettali. Le sue sono parole dolci, che narrano la vita e le difficoltà di una lucciola, gli incontri coi clienti sempre diversi, le litigate coi protettori, le amicizie nate tra i vicoli. Ma sono anche parole dure e brutali quando ricordano e denunciano le colpe di un’amministrazione comunale latitante da sempre, qualunque fosse la colorazione politica. Attacca tutti quelli che da quaranta anni a questa parte speculano su San Berillo a scapito delle vite di chi vi abita, di chi fa mancare qualsiasi servizio, qualsiasi avamposto di civiltà “Chi ha governato Catania ha sempre fatto finta di non vedere le condizioni di San Berillo e dei suoi abitanti, quello che ci serve e di cui abbiamo bisogno. E’ come se fossimo invisibili. E noi, per sopravvivere, continuiamo a fare le marchette nei vicoli”.
Quella sera i sanberillesi tra il pubblico erano tanti, quelli che nel quartiere con mille difficoltà continuano a campare: prostitute, transessuali, immigrati senegalesi, qualche vecchio catanese reduce della San Berillo che fu. Tutti quanti lì quella sera, ad ascoltare e discutere, a capire la complicata storia di questa martoriata zona della città. Certo, erano presenti anche i curiosi, gli attivisti, i radical, la società civile di questa città tanto capace nel puntare e abbassare i riflettori su una vertenza o un caso politico con straordinaria velocità. Ma di certo, per una sera, i protagonisti sono stati altri.
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La laboriosa e affascinante San Berillo raccontata quella sera non esiste più. Agli inizi degli anni ’50 l’allora amministrazione democristiana del sindaco La Ferlita decise che il quartiere dovesse essere raso al suolo per lasciare posto alla costruzione di corso Sicilia e dei suoi enormi palazzi, che dovevano trasmettere l’immagine moderna e avveniristica di Catania. I lavori vennero appaltati ad una società a partecipazione pubblica e privata, l’ Istica (Istituto immobiliare di Catania, partecipato in maggioranza dalla vaticana Società generale immobiliare), la quale requisì tutti i terreni adiacenti a quello che oggi è il corso Sicilia.
Gli abitanti del vecchio rione furono vittima di una sorta di pogrom: dopo la requisizione infatti, circa 30.000 abitanti vennero spostati in una zona della periferia nord di Catania. Passeranno alla storia come i “deportati di San Berillo”.
Da quel momento l’area rimane un cantiere aperto da 50 anni. Il quartiere ha perso la sua originale fisionomia a causa dello sventramento subito: case e botteghe furono rapidamente rase al suolo e una colata di cemento si abbattè su quello che era il centro della città.
Corso dei martiri, centrale arteria tra la stazione e corso Sicilia è un vero e proprio canyon di circa 160.000 mq, lasciato incompleto e abbandonato da cinquanta anni a questa parte. La sua storia recente, che porta con se anche lungo strascico giudiziario, appare oscura e intricata in molti punti. Da qualche anno a questa parte è diventata casa per alcune famiglie bulgare, che con lamiere e cartoni hanno costruito uno slum in pieno centro città.
Nel giugno scorso, l’ex sindaco Stancanelli presentò un nuovo progetto per corso dei Martiri ideato dall’architetto Mario Cucinella. Il “piano di risanamento” venne illustrato alla stampa e all’opinione pubblica con grande squillo di trombe e fanfare al seguito, complice l’imminente scadenza elettorale. Tutto venne fatto velocemente, alla catanese, senza coinvolgere cittadinanza opinione pubblica. Lo stesso consiglio comunale non fu mai interpellato sulla questione in maniera ufficiale. I bulgari furono sgomberati, mandati chissà dove in qualche altra zona di Catania, ma l’enorme bidonville rimase lì dove si trovava, muta testimone dello scempio perpetrato nel corso dei decenni sull’antico cuore della città.
Con il ritorno alla sindacatura di Enzo Bianco il piano sembra essere stato abbandonato per non meglio precisati motivi. Tutto è ritornato alla stasi di prima, in attesa di nuovi sviluppi.
Di certo c’è solamente che attorno a quell’area girano interessi economici enormi nei quali sono coinvolti i nomi della più influente imprenditoria catanese e non. Tra i nuovi proprietari, subentrati all’Istica dopo il suo fallimento, possiamo infatti ritrovare la famiglia Parnassi, grossi palazzinari romani vicini ai Caltagirone; Mimmo Costanzo, ex assessore di Bianco tra il ’91 e il 93, la cui ditta, la Tecnis, si ritrova in altri grandi appalti in città come quello dell’ospedale San Marco; oppure ancora Santo Campione, amministratore della Sigenco, impresa coinvolta nello scandalo del cemento depotenziato per la metro di Catania; ancora, Aldo Palmeri, nome vicino a quelli dei sempre presenti Ciancio e Virlinzi.
E la trama dei rapporti tra interessi economici e politica cittadina risulta essere ancora più intricata: basti pensare come l’attuale assessore Bosco in quota Crocetta sia un collaboratore della famiglia Garraffo, proprietari anche loro delle aree di Corso dei Martiri. Oppure al fatto che l’advisor dei proprietari delle aree sia Andrea Scuderi, famoso avvocato catanese con un passato da assessore in una delle giunte Bianco. Gli esempi da fare -e i cognomi da citare- sarebbero tanti, ma esigenze di sintesi impongono di fermarci qui.
Un vortice di nomi importanti, pezzi di politica, di interessi economici enormi che tanto attirano le mire dei comitati d’affari, vecchi e nuovi, che decidono da sempre le sorti di Catania. Una colata enorme di cemento che andrà a riempire ulteriormente uno dei centri storici più belli del meridione d’Italia. Catania si prepara alla più grossa speculazione edilizia degli ultimi 50 anni.
Oggi a San Berillo ci sono solo stalle clandestine, bettole luride per prostitute, case fatiscenti affittate a senegalesi che di meglio non possono permettersi. Un quartiere senza una precisa forma, diviso e virtualmente tagliato fuori dal resto della città bene. E non importa che chi ancora abita i fatiscenti appartamenti, chi batte nelle luride bettole o chi trova un giaciglio nella spazzatura non abbia nessun servizio, nessun presidio di civiltà, fosse anche uno scampolo di verde in mezzo alla lordura delle strade.
San Berillo, immobile e abbandonata, deve rimanere così com’è, in attesa del colpo di grazia che la cancellerà definitivamente, del completamento definitivo di quel lucroso processo di cementificazione che ha stravolto il cuore di Catania.
SCHEDA
MONTE PO DIMENTICATO
Monte Po è un quartiere dimenticato. Non esiste. L’altro giorno un ragazzo di 25 anni viene ferito durante una sparatoria in piazza. I carabinieri indagano. Monte Po non esiste.
Due anni fa veniva denunciato da Mani Tese, che lì opera ogni giorno per tenere i ragazzi lontani dalle strade, il degrado di un campetto comunale. Uno dei pochi luoghi di aggregazione in questo luogo dimenticato. I ragazzi se lo sono ristrutturato da soli. Ma Monte Po non esiste.
E il “Parco Monte Po” che con i suoi 28 ettari dovrebbe essere un parco cittadino e invece non compare in nessuna cartina? Monte Po non esiste.
Mirko Viola