venerdì, Novembre 22, 2024
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Bruno Caccia venticinque anni dopo

Sono passati 30 anni dal 26 giugno 1983, quando venne assassinato (da un insediamento torinese della ‘ndranghe­ta) il Procuratore di Torino Bruno Cac­cia.

Il suo omicidio fu purtroppo l’ennesimo segmento di una intermina­bile sequenza di uccisioni di valorosi magistrati, vitti­me della violenza terro­ristica o mafiosa. A quei tempi, che sembrano tanto lontani ma sono nel cuore così vicini, i magistra­ti si uccide­vano. Ma non si disonorava­no.

Nella sentenza di condanna (definiti­va) di uno degli imputati dell’assassi­nio di Bruno Caccia, appartenente lla famiglia Belfiore, si legge che egli “era uno di quei magistrati che non vengo­no a patti con la criminalità”. E che “era accanito contro la criminalità or­ganizzata”.

Acca­nito… Quante volte abbiamo sentito ri­petere questa parola, negli ul­timi anni e ancora oggi, con riferi­mento a magistrati “colpevoli” unica­mente di fare il loro dovere, anche nei confronti di poteri forti o di interessi refrattari al controllo di legalità. Acca­nito… Ecco una parola che costituisce un titolo di merito se riferita ad un ma­gistrato morto, mentre per i magistrati ancora vivi – ma scomodi – viene spes­so usata come una clava. Strano il de­stino di questa parola. Strano, ma illu­minante.

Bruno Caccia era accanito nel senso che ricercava la verità con determina­zione. Sempre attento alle regole ma non in­differente ai risultati. Scrupoloso nell’adempimento dei suoi doveri. Senza sconti per nessuno. Per lui non contava lo “status” sociale, economico o politico di questo o di quello, come non contava la caratura criminale. Nul­la che non fos­se la legge poteva influi­re su di lui. Dun­que, l’accanimento di Caccia intrecciava il senso dello Stato con la responsabilità individuale. Ine­stricabilmente.

Quel “senso dello Stato” traeva ori­gine da una convinzione profonda: che solo la convivenza pacifica è convi­venza civile; nella quale soltanto pos­sono trovar svi­luppo altri valori, quali libertà, solidarie­tà, eguaglianza, fratellanza, giustizia. E però la pacifica convivenza necessita di regole; di re­gole che devono essere osservate. E compito del magistrato è appunto quel­lo di farle osservare. A tutti. Altrimenti si apre la strada alla sopraffazione del più forte sul più debole, del criminale sulla vittima.

Ben si comprende, allora, perché Bru­no Caccia sia – ancora oggi – un modello per tutti i magistrati che hanno avuto il privilegio di stargli accanto (io sono stato tra questi ai tempi delle in­chieste sui capi storici delle Brigate rosse) o di conoscer­ne la storia. Ma an­che un punto di riferi­mento ben oltre la cerchia giudiziaria.

Come prova il fatto che una cascina di San Sebastiano Po (Torino), confi­scata proprio alla famiglia Belfiore e ora asse­gnata a “Libera”, a Bruno Cac­cia e alla moglie Carla sia stata intesta­ta dai giova­ni che coraggiosamente la gestiscono, con impegno quotidiano perchè la legali­tà renda i cittadini sem­pre più alleati del­lo Stato.

Un pensiero su “Bruno Caccia venticinque anni dopo

  • Ettore Ferrero...

    Innanzitutto l’omicidio di un Magistrato della Repubblica italiana, quale è il Procuratore Capo della Procura di Torino, Dottor. Bruno Caccia, perpetrato da ” un insediamento” – quindi, neanche, dalla cosiddetta ” Cupola” della ‘ndrangheta – locale appartenente alla ‘ndrina dei Belfiore.
    Neanche voluto da un interesse di più ‘ndrine della Provincia di Torino.
    Un interesse manifestato da una porzione della ‘ndrangheta, che organizza e pianifica l’omicidio “eccellente” di un Servitore dello Stato: un Magistrato della Repubblica italiana.
    Oggi, come allora, l’articolo del C.P. 416 bis, voluto dal Governo italiano dopo l’omicidio del Generale di Corpo d’Armata dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, nominato Prefetto di Palermo, avvenuto il 3 Settembre 1982 dalla mafia siciliana, avrebbe, in relazione all’attentato del Dottor. Bruno Caccia, indotto la Magistratura torinese ad un intervento repressivo contro la ‘ndrangheta senza precedenti nel Nord Italia.
    Oggi, una descrizione come quella di allora è fortemente impensabile: una ‘ndrina di ‘ndrangheta, pur se necessitata, non avrebbe l’intento di attentare alla vita di un Magistrato italiano. Soprattutto, se l’interesse è manifestato verso più Magistrati, disposti in più Procure d’Italia, che si coordinano verso un unico obiettivo [ Es. Omicidio del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa o delle Stragi del 1992 del Dottor. Giovanni Falcone e Dottor. Paolo Borsellino].
    A meno che, nel 1983, l’attentato del Dottor. Bruno Caccia doveva essere, in quanto avvenuto nel Nord Italia, ritenuto talmente ingombrante, che l’ignoranza sui fatti di ‘ndrangheta dovevano rimanere senza enfasi.
    Grazie!…

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