“Ho scelto di lavorare con i ragazzi perché loro sono liberi”
Lo diceva Giuseppe Fava, trent’anni fa. Cosa c’è di straordinario nella storia del suo giornale, “I Siciliani”?
In redazione c’erano una decina di carusi di belle speranze, un proto donna, un grafico milanese, due fototecnici ventenni, due vecchie rotative piane.
A chi e perché fece paura quel giornale? Quello era un giornale libero, un miracolo nella Catania dei cavalieri del lavoro, del buio pesto nel centro storico, degli sprechi di denaro pubblico e del sistema delle tangenti, dei sindaci indagati e processati perfino per aver rubato la refezione scolastica ai ragazzini. Quella era la città della mafia che “non esiste”. La città dei cinque spari alla tempia di un giornalista, in via dello Stadio, alle 21,45 del 5 gennaio 1984.
Ecco, questo c’era di straordinario in quel giornale: parlava libero.
In quel giornale si poteva “parlare di mafia”. Non si taceva. Il ruolo dell’informazione è questo – parlare, parlare, parlare – e questo ci insegnò Fava: “Non c’è giornalismo senza libertà e non c’è libertà senza giornalismo”.
Il punto di partenza è tutto qui. Parlare, parlare. Sfidare il silenzio. La cronaca deve rompere il silenzio, deve rompere. Se non lo fa, non è cronaca.
Quel giornale fu un attimo fuggente, il mio e nostro attimo fuggente, l’incontro irripetibile con un uomo che ti insegna senza retorica a essere libero, a trovare la tua strada, a fare tesoro di un’occasione rara e negata ai tuoi coetanei.
Ma trent’ anni fa, Catania che luogo era?
In questura, il capo della mobile andava a caccia con il boss locale. In prefettura, il prefetto tagliava il nastro all’inaugurazione della concessionaria di auto gestita dal boss locale. Il quotidiano La Sicilia, quando nell’ottobre 1982 il boss locale fu inquisito da Giovanni Falcone per il delitto Dalla Chiesa, definì quel boss “noto imprenditore catanese”. A palazzo di giustizia, il procuratore capo e il pm di punta retrodatarono a penna la data dei carichi penali pendenti dei cavalieri del lavoro Rendo e Costanzo, per permettere loro di partecipare a gare d’appalto. La guardiania nei loro cantieri la facevano gli uomini del boss locale. In municipio, l’intera giunta era pluri-indagata per gravi reati della pubblica amministrazione.
Nessuno raccontava quel “sistema” e quei fatti, “I Siciliani” invece sì. Da solo. Facile come fare la cronaca.
Borsellino lo diceva sempre ai cronisti: “Parlatene, parlatene sempre e comunque. Non spegnete mai i riflettori su questi temi. La mafia ama il buio”. L’informazione locale a Catania invece taceva e confermava bugie collettive.
Aveva ragione Thomas Mann che nel 1950 scrisse: “La vera libertà di stampa sta nel dire ciò che la gente non vuole sentirsi dire”. E proprio questo fece la redazione dei Siciliani guidata da Pippo Fava.
“I Siciliani” entrò in scena all’indomani del 3 settembre 1982, omicidio Dalla Chiesa.
Dopo quel grande delitto politico-mafioso, la parola ha iniziato a prendere il sopravvento sui silenzi, perché bisognava gridare in piazza la verità terribile che quel delitto sbatteva in faccia a tutti: la mafia non più come fatto di “coppola e lupara”, ma come prima emergenza civile e politico-economica nazionale. La mafia all’assalto di Milano, la mafia in Parlamento, la mafia che si fa economia,
Fava la descriveva così. Quale era il suo concetto di giornalismo? Lui scriveva nell’ottobre 1981 un pezzo intitolato “lo spirito di un giornale”:
“Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente alrerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane”.
Fava lo diceva ai suoi coetanei cinquantenni: “Ho scelto di lavorare con i ragazzi perché loro sono liberi”.
Parlava di una rottura generazionale. Importante, come tutte quelle che avvengono nella storia delle idee. Dava ai ragazzi un esempio non retorico di mestiere. E continua a darlo, trent’anni dopo.