giovedì, Novembre 21, 2024
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Gaetano Falsaperla emigrante, ovvero Il treno di notte

Continuiamo un percorso di riflessione – curato da Nomadica – sul rapporto tra il cinema e l’intera opera di Giuseppe Fava, partendo dal primo film della serie “Siciliani” realizzata per la nascente RaiTre regionale tra il 1979 e il 1980

Il rapporto tra Giuseppe Fava e il cinema è multiforme. Critico cinematografico estremamente polemico nei confronti del cinema italiano e dei suoi ambienti festivalieri, drammaturgo e romanziere dalle cui opere vennero tratti 2 lungometraggi (da Vancini e Zampa), sceneggiatore (per Schroeter) ed infine, due anni prima dell’assassinio, cineasta.

L’intero atto creativo di Giuseppe Fava è un complesso intreccio che attraversa la seconda metà del Novecento, ogni analisi non può dunque non tener conto di un’intertestualità che varca i generi, i linguaggi artistici, i temi trattati. Iniziamo così da Gaetano Falsaperla, emigrante, primo lavoro con il quale Fava si avvicina in modo particolare alla macchina cinematografica, divenendo oltre che sceneggiatore, narratore, giornalista e attore, colui che dirige l’azione, coadiuvato dal giovane Vittorio Sindoni a cui la Rai affida la regia dell’intera serie.

E’ il 1978. Fava, dopo un rapido corso di sceneggiatura con Ugo Pirro, inizia la collaborazione con una delle figure intellettuali e artistiche più complesse d’Europa, il regista tedesco Werner Schroeter, esponente di spicco del nuovo cinema tedesco, quello più underground, dei Settanta. Scrive una sceneggiatura che ha come soggetto la storia di un giovane siciliano povero (Michele) che in cerca di lavoro va a vivere a Wolfsburg – “il borgo dei lupi”, la città della Wolkswagen – nella quale si macchia di un delitto a cui segue un articolato processo.

La sceneggiatura di Palermo oder Wolfsburg è un lavoro enorme che va evidentemente oltre le capacità stesse del cinema – quelle possibilità narrative ed economiche che spesso bloccano o intralciano l’atto creativo. Fava sente la necessità – e ne vede l’occasione – di tradurre la sceneggiatura nel suo terzo romanzo, Passione di Michele. La storia del giovane -e del film- può essere divisa in tre parti: la vita in Sicilia, il lavoro a Wolfsburg e il lungo processo.

Rimando l’analisi di Palermo oder Wolfsburg / Passione di Michele ad un altro momento, per concentrare ora l’attenzione su un solo capitolo del romanzo: “Il treno di notte”, 21 pagine in cui si racconta del viaggio in treno del giovane protagonista verso la Germania, il momento in cui abbandona la propria terra per incontrare luoghi sconosciuti, speranze, dolori. Sia in fase di ripresa che di montaggio, Schroeter è costretto a tagliare decine di pagine del testo, interi personaggi, riducendo ai minimi termini anche la scena del viaggio in cui Michele –lo leggiamo nel romanzo– si ritrova in uno scompartimento con altri emigranti diretti in Germania: un vecchio manovale, una donna con due bambini, un triste giovane vestito a lutto, e Giovanni Lamesa, catanese, operaio specializzato in una fabbrica tedesca.

Nei mesi successivi alla realizzazione di Palermo oder Wolfsburg -e del romanzo- Fava e Sindoni iniziano in successione le riprese della serie Siciliani, dando il primo ciak proprio alla stazione di Catania. Il capitolo del romanzo “Il treno di notte” diventa così la sceneggiatura del primo episodio di questa serie televisiva e il catanese Lamesa – che mantiene perfettamente la sgradevolezza del carattere e le sarcastiche ma illuminanti battute del testo – diventa Gaetano Falsaperla, interpretato da un perfetto Leo Gullotta.

Fava – il cui rapporto creativo con la realtà è sempre ibrido, persino nelle realissime cronache di mafia, e andrebbe indagato a fondo nelle sue relazioni con Pirandello e con parte della filosofia del novecento – non può limitarsi alla semplice forma documentaristica: il film rivela da subito la macchina cine-televisiva, il meccanismo della ripresa con le sue maestranze, il suo ritmo d’azione. Fava presenta l’intera serie vestendo i panni del giornalista: immagine frontale in piano americano, microfono, presa diretta. “Gli emigranti siciliani partono quasi tutti da questo marciapiede con il treno delle 15.00, l’indomani mattina arrivano a Bologna dove ognuno troverà il treno per una destinazione definitiva: Amburgo, Colonia, Bruxelles. Abbiamo scelto questo treno per iniziare il nostro viaggio nella Sicilia e nell’animo dei siciliani, cercare di capire cioè cosa accade a un uomo il quale lascia la propria terra per sempre e sa forse di non doverci tornare più: le parole che dice, i pensieri che gli passano per la mente…”. Queste parole -l’immagine si è ora allargata in un piano totale- e la realtà descritta con tragicità dal giornalista, vengono spezzate da un intervento inaspettato, buffo, rozzo e un po’ fastidioso di diversi attori che entrano in scena: Leo Gullotta, Agostino Scuderi, Mariella Lo Giudice, Anna Malvica, sono le figure che ritroveremo nello scompartimento e che entrano teatralmente in campo.

Da subito Fava si mostra come l’analista, il giornalista, il narratore, presenta il lungo viaggio degli emigranti ma anche il viaggio che “ci condurrà attraverso l’isola” -cioè i sei episodi. In queste frasi che aprono la serie Siciliani, Fava pone la tematica dell’emigrazione al centro dei motivi che lo muovono, come se volesse andare ad analizzare tutti i tentativi, le aspirazioni, le problematiche o le sopraffazioni che generano l’emigrazione, il movimento obbligato, il vagabondare, la fuga, tematiche del resto presenti nella maggior parte dei suoi scritti e nelle sue opere, e attraverso queste analisi arrivare alla società siciliana, alla sua industrializzazione fallita, al mancare delle occasioni, delle rivoluzioni possibili, fino agli aspetti più atroci e assurdi: le cronache di mafia.

La realtà viene dunque spezzata dall’irrompere della finzione: nel momento in cui Falsaperla/Lamesa/Gullotta invita il giornalista a sedersi nello stesso scompartimento degli attori, Fava si cala in una posizione ibrida appunto, diventa un “non attore”, silenzioso, che non interferisce con la scena. Si inserisce dentro questa lunga sequenza di finzione -ancora più forte in quanto ci costringe per quasi 30 minuti dentro un piccolo scompartimento del treno Catania/Milano- fatta di primi piani e di brevi battute sarcastiche, ma cariche di informazioni sulla condizione degli emigranti.

L’autore quindi arriva ad annullarsi, pur essendo presente, mettendo in atto un livello narrativo che possiamo rapidamente definire di “finzione-reale”. È come se ci dicesse: “vi pongo di fronte a una scena di finzione anche se, dalla mia breve cronaca giornalistica iniziale, sapete che sono “reale”, non posso intervenire però poiché la parola mi costringerebbe a entrare dentro la finzione o a uscire radicalmente da essa”. Fava assume –anche fisicamente, occupandone il posto all’interno dello scompartimento– lo spazio narrativo di Michele Calafiore, protagonista del romanzo, “spiazzando” quel capitolo/viaggio di Passione di Michele e dimostrandoci ancora una volta la capacità di rimodellare la propria narrazione, manifestando la leggerezza e la complessa semplicità della sua scrittura in una sorta di transmedialità ante-litteram.

Tutto ciò riguarda il film, i film, i romanzi, la sua posizione di autore come parte integrante dell’opera. Ma ci sono altri libri, altri piani, altri livelli di intertestualità a cui l’analisi ci conduce, per capire non solo il film, ma la profondità intellettuale di quest’uomo, il suo sguardo sul mondo. Nel 1980 (lo stesso anno della serie televisiva di cui scriviamo) viene pubblicato un testo intitolato I Siciliani (edito da Cappelli), una raccolta di pezzi scritti per il quotidiano La Sicilia. Tra questi troviamo un articolo dal titolo Il treno di notte. Stesso soggetto, stessa storia, in cui Fava, stavolta con stile prettamente giornalistico, argomenta in modo leggermente diverso le intenzioni del viaggio: è proprio da queste variazioni che scaturiscono le sfumature creative che rendono evidente il vigore e la semplicità con cui Fava passa da uno strumento all’altro, da un linguaggio all’altro, restando sempre perfettamente coerente con le proprie idee, con il proprio modo di vedere e capire il mondo, l’essere umano, la ricerca della verità. Riporto la parte iniziale di quest’articolo:

“[…] Ho voluto viaggiare su uno di questi treni, cioè ho cercato di capire cosa accade mentre un uomo si allontana dalla propria terra e dalla propria famiglia e sa che per mesi ed anni non potrà più tornare: le parole che egli dice, i pensieri che gli passano per la mente. Ecco, il fascino dell’esperimento era questo appunto: capire fin dove fosse falso tutto ciò e ricondurlo alla realtà, alla giusta proporzione dei fatti umani, vale a dire semplicemente un viaggio di gente che va a lavorare in un’altra parte dell’Europa dalla quale si può comunque tornare in sole tre ore di aereo.

Questo che segue, dunque, è il diario di un viaggio notturno in seconda classe da Catania a Roma, nel quale mi limiterò a raccontare i personaggi che ho conosciuto, i discorsi che ho ascoltato e le cose che ho visto, senza aggiungere, né riferire quelle che indubbiamente sono state le mie impressioni sentimentali…”. Vediamo così come il silenzio del Fava non-attore/autore che si cala nella scena di finzione descritta in precedenza, coincide perfettamente con il silenzio del Fava uomo/giornalista che si cala nella realtà, con il suo “senza aggiungere, né riferire” le proprie impressioni.

Tra una battuta e l’altra veniamo a conoscenza delle vite che accompagnano il viaggio, il racconto, il film, in questa storia esemplare di poveri emigranti siciliani e dei loro parenti più cari, tra cui il triste ragazzo vestito di nero, silenzioso, che continua a piangere. Veniamo a conoscenza che il padre del ragazzo lavorava in Germania, e dato che è morto in fabbrica colpito da una scarica elettrica i padroni stanno dando lo stesso posto al figlio… L’ultima battuta di Falsaperla chiosa sarcasticamente tutta l’amarezza e la disumanità di questa condizione, evidenziando il ciclo generazionale di sofferenza e miseria: “Compare, questa è organizzazione: restituiscono un cadavere e si prendono un uomo vivo!”.

Al verismo, all’impossibilità di sfuggire al proprio destino, i personaggi di Fava rispondono -in questa precisa fase creativa della fine degli anni ’70- con una cruda, amara, sarcastica risata folle: unica reazione possibile a tutte le sofferenze, alle speranze spezzate, agli amori calpestati, alla crisi sociale, alla misera condizione dell’uomo contemporaneo. Basta confrontare la figura di Gaetano Saglimbeni, protagonista di Cronaca di un uomo, prima opera teatrale di successo scritta nel 1966, con quella di Gaetano Falsaperla.

Nel primo caso vediamo un giornalista che spera di far carriera ma lavora in nero, un uomo serio e profondo che perde pian piano ogni speranza ed è costretto ad emigrare in Germania, ma la depressione e la paura stessa del futuro lo uccidono improvvisamente proprio nello scompartimento del treno, lungo il viaggio. Dieci anni dopo, Falsaperla è invece un cinico che non si lascia scalfire sentimentalmente durante lo scontro con l’altro, che fa dello scherno il proprio scudo ed è fiero e ignorante, e crede addirittura di poter “mettere la saliva sul naso ai tedeschi”. Manifestazione esplicita di questa “risata folle” la troviamo anche in Foemina Ridens, unica opera teatrale che Fava avrà la possibilità di dirigere sia a teatro (1977) che nel film Anonimo Siciliano (1982). Qui la disperazione della madre del sindacalista ucciso dalla mafia (ma anche dalla politica, dalla Giustizia, dallo Stato) –che riprende il dramma La Violenza (1971)- viene continuamente interrotta e denigrata da una coppia di personaggi mutevoli che si travestono, si insultano, ridono l’uno dell’altro, giocano, inseguendo una quotidianità imprecisa, incerta, fatta di stenti, di fame.

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