Ristoranti che inneggiano alla mafia nel mondo: false indignazioni e vere ipocrisie
Ci s’indigna per il “Don Panino” viennese ma si tace per il Padrino ostentato in Italia, si denunciano le violenze all’estero ma si tace la repressione italica. Tacere o parlare è la convenienza di un momento, lacrime a comando e ipocrisia quotidiana…
“Un bel tacer mai scritto fu” esclamò Ericlea, la nutrice di Ulisse, nel quinto atto dell’opera lirica “Il ritorno di Ulisse” nel 1641. Son passati 372 anni ma son parole di oggi. Tacere è una delle più subdole, ipocrite e vigliacche complicità all’arroganza, alla violenza, alla prepotenza, del Potere. Tacere appare comodo, facile, basta girarsi dall’altra parte. E’ così semplice che non occorre neanche togliere le mani dalle tasche. Si è complici e ci si crede anche puri e candidi come la neve. In tempi moderni è nata anche una variante: il tacere parziale. Si parla o si rimane muti a comando, a convenienza. Per lavarsi la coscienza e tentare di mantenere la propria parvenza di coscienza, parafrasando Dé Andre, si fa finta di cantare per l’Amazzonia ma si guarda sempre alla pecunia.
Nulla si giova del tacere degli onesti (per dirla alla Martin Luther King), nulla si nutre della complicità di chi si volta dall’altra parte e tiene le mani nel caldo delle proprie tasche più delle mafie. L’ala militare e i tentacoli economico-finanziari possono agire indisturbati solo quando è perfettamente operante la terza leva del Potere: il tacere di una fitta rete di complicità sociali e politici. In queste settimane televisioni e giornali hanno alzato le loro grida inorridite e sdegnate per un pub viennese che inneggiava e omaggiava la mafia. Presi da furore nazionalista e d’impegno civile ci hanno raccontato con precisione il menù di questo pub, hanno tirato sospiri di sollievo quando dal Governo Italiano si è protestato con le autorità austriache. Qualche solerte giornalista è andato oltre, e con raro fiuto investigativo, ci ha raccontato di un ristorante in Argentina a sua volta inneggiante alla mafia. Si scriveva poc’anzi che esiste anche il tacere parziale, il parlare secondo le convenienze del momento. Ed infatti non ci hanno raccontato l’altro tratto comune tra il pub viennese e il ristorante argentino: il nazionalismo non c’entra nulla, gli ideatori di questi due locali sono italianissimi, sono figli e figlie dell’Italia del Sud. Quella stessa Italia del Sud dove a Palermo, come ha ricordato nei giorni scorsi il sito RestoalSud, “da molti anni, sulle bancarelle che s’incrociano spesso per il centro e nei negozi di souvenir per turisti, accanto a pupi e carretti, non è affatto difficile trovare oggetti che ricordano ai visitatori di essere nella capitale della mafia“. Ma di voci indignate contro questo commerciale ostentare la convivenza con le mafie e i loro sporchi affari se ne sentono meno che poche. E nessuno, in questi giorni di alta indignazione rivolta verso l’Austria e l’Argentina, sembra essersene accorto. Ne abbiamo già scritto innumerevoli volte, ma non è mai abbastanza per le coscienze sopite e per gli indignati a ore. Le mafie possono prosperare solo col tacere degli onesti, con la complicità delle “anime candide”, con chi si ricorda dei “martiri dell’antimafia” nei giorni degli anniversari ma il giorno dopo, così come quello prima, tace e si rende complice della prepotenza e dei criminali affari delle mafie. Accade a Palermo, così come a Milano. La mafia non c’è, la mafia non esiste. Facile declamare la memoria di Falcone, Borsellino e Peppino Impastato, basta poco. Ancor meno per convivere con le mafie, fare sfoggio quotidiano d’ipocrisia e omissioni. E’ un meccanismo che vediamo all’opera quotidianamente. Fiumi di parole, lacrime, indignazioni pret-à-porter contro il femminicidio. Ma avete mai provato a sentire i quotidiani discorsi nelle piazze e nei bar? Perché in generale siam tutti bravi, tutti onesti, tutti indignati. E poi quando accade realmente, sotto casa, vicino alle nostre tiepide case, arrivano i dubbi (ma sarà vero?), i perbenismi bigotti (ma lei si vestiva sempre così, ma lei era colà). E si contano sulle dita di mezza mano coloro che rimangono al fianco delle vittime, ne raccolgono e condividono la denuncia e la richiesta di giustizia e dignità. Mentre per la brava gente, alla fine della giostra, è lei ad essere la “malanova”. Accanto ad Anna Maria Scarfò, emarginata, giudicata e condannata dai suoi compaesani, oltre all’Associazione Antimafie Rita Atria e pochissimi altri (si può fare tranquillamente l’elenco completo di chi sottoscrisse l’appello a suo favore nel febbraio dell’anno scorso: Associazione Antimafie Rita Atria, Fondazione Giovanni Filianoti, Le Siciliane – Casablanca, Libera – Reggio Calabria, Comitato “Se non ora quando?” – Reggio Calabria, Le autrici di “Non è un paese per donne”, Comitato “Se non ora quando?” Tirreno – Salentino – Pollino, Associazione “Jineca” Reggio Calabria, Stopndrangheta.it) non ho mai visto i potenti riflettori dei grandi media nazionali. Lo stiamo vedendo anche in questi giorni. Ci parlano della Turchia, danno voce ai manifestanti, ci raccontano le violenze di Stato. Ma non hanno aggiungono che le violenze di Piazza Taksim sono gemelle siamesi della repressione a Niscemi, in Val di Susa, della manifestazione degli e delle aquilan* a Roma del luglio 2010, che in Italia già al G8 di Genova del 2001 furono sparati contro i e le manifestant* gas proibiti dalle Convenzioni di Ginevra. Domenica scorsa abbiamo avuto notizia dell’ennesima tragedia del mare, di migranti morti mentre sognavano le coste italiane. Tragedia colpa del destino? Nossignori. Perché quella “tragedia”, così come le centinaia, le migliaia di questi anni, ha responsabilità ben precise. Responsabilità in alto, di Stato, di chi ha promosso e vergato leggi xenofobe, razziste, disumane.
Potremmo andare avanti per ore, per giorni e giorni. Non parliamo di fatti isolati, di atomi dispersi nella società quotidiana. Son tutti figli e figlie del tacere a comando, che oscilla ondivago tra l’indignazione e la commozione di coscienze che ogni tanto chiedono di essere lavate e l’ipocrisia quotidiana. Le mafie non si combattono con le belle parole, con le cerimonie di un momento. Si combattono con l’impegno quotidiano, si combattono togliendo le mani dalle tasche e alzando tutte le dita delle due mani, rifiutando di tacere, urlando, gridando. Disarticolando le complicità di chi pensa che con la mafia si può convivere, di chi ostenta di essere la “città della mafia”, di chi è anagraficamente figlio e figlia di questa nostra terra italiana e non si vergogna di esportare all’estero la stessa sottocultura e mentalità che tace e s’inchina ai boss. Nei menù del “Don Panino” di Vienna Peppino Impastato viene descritto come un “Siciliano dalla bocca larga”. Domandiamoci quanti e quante lo pensano ancora oggi in Italia. Domandiamoci quante brave persone s’indignano per Piazza Taksim e condividono la repressione delle piazze Taksim d’Italia, quotidiamente ripetono che “‘st’immigrati so’ troppi, se ne tornino al loro Paese” e non condannano le belve del branco ma additano le vittime come “malanove”. “”Un bel tacer mai scritto fu” ma l’ipocrisia a buon mercato non è da meno…
Alessio Di Florio
Associazione Antimafie Rita Atria
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