Giustizia per Lea
Milano. La Corte d’Appello è riunita a giudicare gli assassini di Lea Garofalo, rapita e uccisa per essersi ribellata alla ‘ndrangheta. In aula la giovanissima figlia, Denise, a testimoniare contro gli assassini di sua madre.
In aula e fuori, le ragazze e i ragazzi del presidio di Libera: “Non lasciamo Denise sola” è il tam-tam che da due mesi gira in tutte le scuole della città
ATTO I: LA CONFESSIONE
13 aprile. L’udienza è finita. Gli avvocati si stanno togliendo le toghe, i giudici cominciano ad alzarsi e il pubblico già si avvia verso l’uscita. Dalla gabbia degli imputati si solleva una voce tremante, dal forte accento calabrese che chiede ai giudici di poter leggere un foglio che tiene stretto tra le mani.
Sono le 14.30 di martedì 9 aprile e nel tribunale di Milano si sta per concludere la prima udienza del processo d’appello per il caso Lea Garofalo, la testimone di giustizia rapita e uccisa nel novembre 2009. A parlare è Carlo Cosco, ex compagno della donna, uomo di ‘ndrangheta e condannato con altri cinque imputati all’ergastolo per il suo omicidio. La presidente della corte, Anna Conforti, invita tutti i presenti a sedersi. Davanti al microfono Cosco comincia la sua dichiarazione spontanea. «Mi assumo la totale responsabilità per questo omicidio. Chiedo di poter vedere mia figlia che è sotto protezione. Da chi deve essere protetta? Io adoro mia figlia. Guai a chi la tocca. Io prego di avere un giorno il suo perdono».
La figlia a cui si riferisce è Denise, classe 1991, una ragazza che ora vive sotto protezione per aver testimoniato contro chi ha ucciso sua madre. Anche lei è in aula. Nascosta da un paravento per proteggere la sua identità, Denise ha già dovuto raccontare nel primo processo il clima di terrore in cui viveva con la madre e nelle prossime udienze dovrà testimoniare ancora. Per sostenerla, per farle sapere che non è più sola, ci sono anche molti ragazzi di Libera, alcuni provenienti addirittura da Reggio Emilia. Per tutta l’udienza sono rimasti fra il pubblico, fianco a fianco con i parenti degli imputati.
Questi sono stati gli ultimi atti di un’udienza iniziata verso le 9.30 con la lettura della sentenza del processo di primo grado, che risale al marzo 2012. Dopo questo atto formale, sono state avanzate le richieste da parte degli avvocati. Il Procuratore Generale Marcello Tatangelo, pubblico ministero alla corte d’Assise, ha richiesto che venga ascoltato come testimone Carmine Venturino. Si tratta di uno dei condannati in primo grado per il processo, che dal luglio 2012 ha cominciato a collaborare con la giustizia.
Venturino segue l’udienza dal carcere e la sua presenza è testimoniata da una telecamera predisposta nella sua cella. L’in- quadratura è fissa, l’uomo immobile, più che un filmato sembra un fermo immagine. Venturino chiede ai giudici: «Vorrei testimoniare in tribunale, non dalla mia cella. Se è possibile, se non ci sono rischi vorrei venire in prima persona a raccontare quello che è successo». Grazie alle informazioni da lui fornite, la magistratura sta ora indagando su un altro uomo coinvolto nell’omicidio, Damian Jancaza, un polacco vicino alla famiglia Cosco.
Il Procuratore Generale richiede l’acquisizione dei sopralluoghi avvenuti dove si è consumato il delitto, fra cui il magazzino di Crivaro, dove sono stati trovati i resti della donna. L’avvocato di Denise Cosco, Enza Rando ha invece chiesto l’acquisizione di due denunce, che provano il furto e l’incendio dell’auto di Lea Garofalo. Avvenuti nel 2002, questi due fatti insieme al tentativo di sequestro avvenuto a Campobasso nel 2009 evidenziano quanto il rapimento della donna sia stato ben meditato e preparato da molto tempo. Gli avvocati che difendono gli imputati hanno invece proclamato ancora una volta la totale innocenza dei clienti.
Alla luce di queste informazioni, le dichiarazioni fatte da Carlo Cosco al termine del processo, appaiono tutt’altro che spontanee. Più che un reale pentimento sembra una strategia difensiva in due direzioni: tentare di assumersi totalmente la colpa del delitto, scagionando così i fratelli Vito e Giuseppe; e rimarcare il proprio amore paterno – per una una ragazza di cui ha ucciso la madre – nel tentativo di mostrare un lato umano ai giudici e forse anche quella di far crollare la figlia, portandola a ritirare la sua fondamentale testimonianza.
LA VERSIONE DI VENTURINO
20 aprile. Separato da un paravento bianco da coloro che «per tre anni sono stati – così come li ha definiti – la mia famiglia», Carmine Venturino, collaboratore di giustizia dal 31 luglio 2012, si è trovato nel secondo giorno di udienza del processo di secondo grado per la morte di Lea Garofalo a dover confermare le dichiarazioni fatte nei mesi scorsi al pubblico ministero e ad autoaccusarsi del concorso all’omicidio della madre della ragazza che lui stesso dice di amare.
Il 10 aprile dichiara dunque davanti alla corte d’Assise del Tribunale di Milano: «È una scelta d’amore per Denise perché deve sapere come sono andate le cose sull’omicidio di sua madre». Con queste parole Carmine Venturino, nato a Crotone nel 1987 da una famiglia di incensurati, inizia la ricostruzione di tutte le fasi di organizzazione dell’omicidio di Lea Garofalo; dal progetto sventato a Campobasso nel maggio del 2009 fino al giorno, il 24 novembre 2009, in cui la donna viene rapita, torturata e uccisa. Strangolata con un nastro floreale delle tende dell’appartamento di Via Fioravanti, il cadavere messo in uno scatolone e alla fine trasportata in un garage. Lì l’ordine di Carlo Cosco: «La dovete carbonizzare».
Poche parole quelle dell’ex compagno della donna ma soprattutto poche domande, afferma Venturino: «Non si fanno domande nella ‘ndrangheta, significherebbe poca serietà; l’unico commento di Carlo Cosco è stato ‘la bastarda se n’era accorta’». Il collaboratore poi prosegue il suo agghiacciante racconto sulla distruzione del cadavere di Lea Garofalo: «Apriamo lo scatolone e rovesciamo il corpo a testa in giù nella benzina; si intravedevano solo le scarpe. Poi abbiamo buttato la benzina ma il cadavere bruciava lentamente, così mentre il corpo bruciava venivano spaccate le ossa con un badile. Ciò che rimaneva l’abbiamo messo in una borsa e coperto da una lamiera».
Continua poi la sua ricostruzione, raccontando alla corte il recupero degli abiti sporchi di sangue di Carlo Cosco, nascosti vicino al cimitero monumentale e recuperati da Rosario Curcio perché “erano firmati”. Dettagli che lasciano intravedere lo scenario ‘ndranghetista dentro il quale si è consumato il terribile omicidio: «Lui doveva ammazzare la compagna per le regole della ‘ndrangheta; io non sono un affiliato, sono un contrasto onorato, ho preso parte a questo disegno criminoso perché facevo parte della famiglia, in quanto spacciavo per loro e quindi dovevo loro dei soldi; non potevo dire di no; a Pagliarelle non si muove una foglia che i Cosco non voglia».
E sulla dichiarazione spontanea rilasciata da Carlo Cosco il 9 aprile, alla fine della prima udienza, Carmine Venturino dichiara: «Secondo Carlo Cosco si doveva dovevano uccidere anche Denise; nel processo di primo grado c’è stato un episodio in cui l’avvocato ha mostrato delle fotografie rimaste appoggiate sul banco della difesa e Carlo Cosco quando le ha viste ha detto, ‘ancora davanti a me la metti questa puttana’».
Carmine Venturino ha dovuto riportare tutto quello che ha detto anche nel corso della terza udienza, tenutasi venerdì 11 aprile. In questa giornata la corte ha ascoltato anche altri due testimoni, che hanno definito meglio l’ambiente malavitoso in cui si è consumato l’omicidio di Lea.
L’udienza si è aperta con il contro esame da parte degli avvocati difensori, in primo luogo il legale diCarlo Cosco, Daniele Sussman Steinberg. La maggior parte delle domande era mirata ad un unico tema: la ‘ndrangheta. Sussman ha cercato di far cadere le informazioni che Venturino aveva rilasciato riguardo a quell’ambiente malavitoso in cui operava Carlo Cosco. Incalzato dall’avvocato, Carmine Venturino dichiara le doti, i gradi di potere, che avevano i membri della famiglia Cosco. Giuseppe avrebbe il grado di sgarrista, Massimo di picciotto, Vito di camorrista e infine Carlo avrebbe la dote di Santa, facendo così parte della Società Maggiore. Con questa dichiarazione viene quindi sollevata l’ipotesi che non solo l’imputato sia vicino alla ‘ndrangheta, ma che ne ricopra una posizione di rilievo nei vertici. Certo davanti a lui ci sono altre doti, altri gradi, da raggiungere prima di arrivare in cima, ma comunque lui sarebbe un capo zona.
Il collaboratore di giustizia ha quindi chiarito anche alcune dinamiche interne al gruppo degli imputati. «Carlo Cosco era il capo. Rosario Curcio era uno dei suoi soldati. Suo fratello Giuseppe invece era quello più indipendente della famiglia, si occupa dello spaccio di droga». Per quanto riguarda poi la sera dell’omicidio, Venturino afferma ancora l’estraneità dei fatti per Massimo Sabatino, mentre a Giuseppe Cosco attribuisce solo un ruolo organizzativo. «Carlo non è che abbia tutto questo cervello, a preparare tutto quanto, per me può essere stato solo Giuseppe». Sembra infine che Rosario Curcio fosse già sulla lista nera dei Cosco, colpevoli di averli insultati in pubblico.
«I Cosco avevano aperto un’impresa edile, la Olimpia srl, che si occupava di cartongesso. Avevano fatto diversi lavori in giro, per esempio a Desio o Buccinasco. Nella ditta c’era anche Curcio, ma lui non aveva preso nemmeno un euro per tutte queste opere. Una sera allora, dopo che si era ubriacato, aveva insultato i Cosco in mezzo al cortile, apertamente. Da quel momento Carlo ha sempre avuto l’idea di ucciderlo».
Venturino non ha risposto a tutte le domande, spesso si è riservato di non parlare perché le informazioni richieste erano coperte da segreto istruttorio. L’ipotesi più probabile è che dalle sue dichiarazioni sia iniziato un altro procedimento penale, che riguarda invece l’usura, lo spaccio e tutte le altre attività criminali dei Cosco.
Il processo è continuato poi con la deposizione di Giulio Buttarelli, tenente colonnello dei carabinieri, che ha riportato l’esito dei sopralluoghi fatti grazie alle indicazioni di Venturino.
Ha confermato il ritrovamento di una scheda sim distrutta e poi nascosta in una grata e ha dichiarato anche che dal suo appartamento mancava la corda di una tenda, quella usata per strangolare Lea.
Ultima ad avvicinarsi al microfono è stata Denise. La ragazza si è mostrata subito decisa, disposta a rispondere a qualsiasi tipo di domanda le venisse rivolta. La sua testimonianza è stata breve, ha dovuto solo riconoscere dei gioielli che portava la madre il giorno della sua scomparsa. Questo piccolo esame è servito per identificare ancora il corpo di Lea Garofalo, dato che, per adesso, non si è ancora riusciti ad estrarre il suo Dna dai resti.
Prima di andarsene Denise ha però voluto chiarire una cosa. Era stato detto infatti che lei aveva partecipato alla festa organizzata da suo padre Carlo in occasione del suo diciottesimo compleanno. Era il 4 dicembre del 2009, pochi giorni dopo la scomparsa di sua madre. «Io a quella festa non ci sono mai andata, non volevo neanche che la organizzasse. Mia madre era appena scomparsa. Io non avevo niente da festeggiare, forse gli altri sì».
Tramite il suo legale, Carlo Cosco ha infine chiesto di poter testimoniare in au- la. Dopo essersi sempre dichiarato inno- cente fino alla prima udienza del processo di secondo grado, il principale imputato per la morte di Lea Garofalo si siederà per la seconda volta davanti ai giudici.
CARLO COSCO: “NDRANGHETA? IO NON LE APPARTENGO”
25 aprile. La quarta udienza di secondo grado di giudizio per l’omicidio di Lea Garofalo si è aperta martedì 16 aprile 2013 con la testimonianza dei consulenti di medicina legale dell’università degli Studi di Milano. I periti hanno riportato alla Corte i risultati dei resti rinvenuti nel tombino indicato dal collaboratore di giustizia Carmine Venturino, tra via Canonica e Via Lomazzo; risultati che – nonostante le difficoltà ad identificare la donna – «sono coerenti con i racconti del Venturino», afferma il perito. Il cadavere, infatti, bruciato ad altissime temperature, i cui resti sono stati meccanicamente frammentati in seguito alla combustione, è stato identificato grazie alle protesi dentarie comparate ad una lastra trovata dalla figlia Denise tra gli oggetti della madre.
Dai dati scientifici dei consulenti tecnici si è poi passati all’interrogatorio di Carlo Cosco da parte del suo avvocato. Una difesa, quella di Daniele Sussman Steinberg, interamente costruita sull’amore di Carlo Cosco per la figlia Denise, sui difficili anni passati separati quando lui era in carcere, sulle sue preoccupazioni derivate dalla decisione di Lea Garofalo, all’epoca ventunenne, di trasferirsi a Bergamo con la figlia di quattro anni. Solo paure e ansie per la figlia Denise dunque. Tanto che, per punire la madre di sua figlia per un litigio con la suocera, Carlo Cosco ordina a Massimo Sabatino di recarsi a Campobasso – dove all’epoca vivevano le donne – per picchiare Lea Garofalo.
«Non la volevo assolutamente uccidere, ma solo darle due schiaffi, per la storia di mia madre», chiosa l’imputato. Che rivela poi i dettagli dell’omicidio, indicando nelle ragioni che lo hanno portato a compiere quel gesto solo un raptus di follia scaturita dalle minacce di Lea di non fargli vedere più la figlia. «Mi ha detto brutte parole; che non mi faceva vedere mia figlia e queste cose qua; allora l’ho presa e l’ho sbattuta a terra. Se non mi sono consegnato subito è stato per paura di perdere mia figlia; il mio errore è stato quello».
Raptus di follia e non omicidio premeditato collegato alla cultura mafiosa. «E’ vero che fa parte di un’associazione criminale di stampo mafioso chiamata ‘ndrangheta?», domanda Steiner all’imputato, «No, assolutamente no, mai fatto parte di una ‘ndrina».
Con questo tentativo, la difesa ha così cercato di mostrare sotto una luce diversa, legata a dinamiche di amore tra padre e figlia, l’omicidio di Lea Garofalo. Nello stesso tempo viene screditata anche la deposizione di Carmine Venturino, che non è fondamentale solo per questo processo, ma potrebbe far aprire anche altri procedimenti penali, legati agli affari della famiglia Cosco. Insomma, il solito delitto passionale. La ‘ndrangheta? No, di quella nessuno fa parte.
I PRESIDII DEGLI STUDENTI AL PROCESSO
Non lasciamo sola Denise!
Il 15, 16 e 21 maggio avranno luogo altre udienze del processo. Gli studenti antimafiosi fanno appello a tutte le ragazze e i ragazzi di Milano perché vengano in massa a testimoniare la loro solidarietà con Lea e Denise.
Per partecipare, contattare i responsabili dei presidii nelle varie giornate:
– per mercoledì 15: Lucia pres.giovanimi@libera.it
– per giovedì 16: Arianna pres.giovanimi@libera.it
– per martedì 21: Giulio pres.giovanimi@libera.it
Per ogni altra informazione: Presidio giovani di Libera pres.giovanimi@libera.it
oppure Redazione di Stampoantimafioso redazione@stampoantimafioso.it