L’acqua la città la polis
Sara Giorlando è stata una delle protagoniste del forum dell’acqua che ha portato alla vittoria del referendum “acqua bene comune”. Una grande vittoria di popolo che ha sancito il diritto alla partecipazione democratica e il principio che le decisioni d’interesse comune debbono partire da una “polis” costruita dal basso
Puoi raccontarci in breve le motivazioni ideali che ti spinsero a partecipare ai movimenti dell’acqua bene comune?
È stato un percorso naturale, fin dai collettivi studenteschi ci siamo resi conto che stavano privatizzavano la scuola, l’università, i saperi. Nel frattempo arrivò Seattle, il movimento no-global, e così ci siamo accorti che ci battevamo, in tanti e in Paesi diversi, contro la mercificazione dell’esistenza. Poi nel 2000 migliaia di persone manifestarono a Cochabamba contro la privatizzazione dell’acqua, venduta ad una multinazionale. Una risorsa indispensabile alla vita veniva trasformata in una merce.
E così, anche, in Italia nacque una piccola rete formata da chi pensava che la privatizzazione dell’Acqua fosse l’emblema degli effetti delle politiche neoliberiste di sottrazione degli spazi e dei beni comuni. Per noi parlare di acqua vuol dire parlare di tutte le privatizzazioni dei beni pubblici e dei danni che crea questo modello economico.
Inoltre, ha permesso di unire approcci e percorsi diversi: perché parlando di acqua parliamo di tutela del territorio, di cambiamenti climatiche, di grandi infrastrutture; di mafia e di guerre dell’acqua, di immigrazione; di salute e di qualità delle acque; di inquinamento, risparmio, riuso e riciclo; di lavoro; di che tipo di agricoltura e di che produzione vogliamo, quali bisogni soddisfare, come soddisfarli e con quali priorità.
Nel frattempo discutevamo anche di democrazia partecipativa, guardando a Porto Alegre, e arrivammo alla costituzione del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, che dal basso e mettendo insieme l’esperienza dei tecnici e dei militanti dei vari comitati locali, scrisse una legge di iniziativa popolare, che però rimase chiusa in un cassetto e così, coraggiosamente ci lanciammo nell’avventura del referendum.
I movimenti per l’acqua bene comune vinsero nel 2011 il referendum e i “si” furono la stragrande maggioranza, pensi che a due anni dal referendum questa vittoria sia stata rispettata dalle amministrazioni ed enti pubblici in tutto il territorio nazionale?
Purtroppo no. Anche il Comune di Catania, in barba al referendum, qualche mese fa ha tentato di privatizzare la Sidra, la società di gestione dell’acqua, ma presidiando il Consiglio Comunale siamo riusciti ad impedirlo. Abbiamo dimostrato che la lotta paga, che l’unico modo per difendere i diritti e i beni comuni è partecipare. Il nostro assedio continuo al consiglio comunale ha dato i suoi frutti. Se non fossimo stati lì presenti per mesi a spiegare che non era vero che la privatizzazione fosse un obbligo e che privatizzare l’acqua fosse addirittura illegittimo non avremmo ottenuto questo risultato.
Tuttavia abbiamo salvato solo l’acqua: l’amministrazione ha imposto di votare una delibera con cui ha deciso di privatizzare le altre società partecipate.
Però il referendum ha cambiato tante cose e da lì dobbiamo ripartire. Innanzitutto, ha dimostrato che la maggioranza degli italiani si sta risvegliando dal “pensiero unico”, che non è vera la favoletta del “privato è bello” e che possiamo sperimentare un pubblico nuovo basato sulla partecipazione diretta dei cittadini.
Cosa ti ha fatto decidere di entrare in un movimento politico come “Catania bene comune”, che parteciperà alla competizione elettorale per le amministrative catanesi del 9 giugno?
Penso che i movimenti debbano continuare il proprio percorso compiendo un ulteriore salto di qualità: proporsi come capaci di amministrare. Ed è proprio dal livello comunale che si possono sperimentare nuove forme di governo partecipato ed è da qui che si può organizzare una mobilitazione vincente contro le politiche di austerità.
Ciò si può fare, innanzitutto, chiarendo che la creazione del debito comunale è andata a vantaggio di pochi e non della maggioranza delle persone. Occorre dire che non abbiamo intenzione di pagare debiti che riteniamo illegittimi, perché sono serviti non a realizzare politiche di sviluppo sociale della città, ma a coltivare gli interessi di pochi.
Partendo dalla ripubblicizzazione dei servizi pubblici locali (acqua, rifiuti, energie…) si può pensare un’economia nuova, che salvaguardi insieme ambiente, occupazione, redditi ed equità; che valorizzi le professionalità e le esperienza esistenti; che valorizzi i quartieri riscoprendoli e rispettandoli, che grazie ad una pianificazione urbanistica partecipata rilanci un turismo equo e sostenibile. Questo è “Catania Bene Comune”.
Ma l’idea di partecipare alla costruzione di “Catania Bene Comune” nasce, per me, anche da un’altra esigenza: dire che sono di sinistra e lo sono perché voglio invertire le politiche dei ricchi contro i poveri, perché voglio liberarmi dal fascismo, dalle mafie e dall’affarismo.
Uno dei limiti del movimento è stato quello di non far emergere esplicitamente come vi sia una classe sociale che paga e arricchisce le altre e di non essersi soffermato ad analizzare da chi è composta questa classe. Adesso credo sia giunto il momento di farlo.
Per l’affermazione di tali diritti, per la tutela del territorio, per la salvaguardia delle periferie e dei quartieri di Catania, ritieni che l’ostacolo più grande siano la corruzione e le mafie? E come pensi di combattere questi due fenomeni in modo concreto?
L’esperienza che ho raccontato sopra sul consiglio comunale è l’esempio di un’Amministrazione che utilizza i servizi pubblici come ammortizzatori sociali, i lavoratori come bacino di voti e i consigli di amministrazione per piazzare i politici non eletti. È l’ulteriore riprova che i Comuni oggi sono svuotati di legittimità. Un Comune che trasforma i propri cittadini in “clienti” addirittura del proprio Sindaco (azionista dentro le partecipate) rompe ogni idea di comunità e quindi di democrazia. Tutto ciò nel nostro territorio vuol dire lasciare spazio ai poteri affaristici e mafiosi.
Per questo l’unica arma capace di sconfiggere le mafie è ricostruire dal basso il “Comune”, liberare pezzo per pezzo questa città combattendo l’abbandono scolastico, creando delle scuole nuove che sappiano essere inclusive e aperte ai bisogni dei quartieri, creando un’alternativa economica che non si basi sullo sfruttamento del territorio, ma su piccoli interventi decisi insieme agli abitanti, che crei spazi di socialità e condivisione (orti collettivi, luoghi per lo sport e il gioco…) e quindi di democrazia e responsabilità. Un Comune che risponda alle reali esigenze dei suoi abitanti. Una nuova idea di città, che parte dal prendersi cura della città stessa.
Il percorso è solo all’inizio ed è lungo, anche perché richiede un profondo cambiamento culturale, ma se non iniziamo a coltivare il sogno di una Catania diversa questa non vivrà mai.