Peppino e il movimento del ’77
L’anno in cui esplose l’Italia. Fra ribellioni e integrazione
Il movimento del ’77 rappresenta l’ultima onda, quasi il riflusso del ’68. Alcune idee legate alla lotta contro il sistema, al bisogno di sentirsene fuori, al combatterlo con le manifestazioni di piazza, l’organizzazione militante del dissenso, i tentativi non sempre riusciti di uscire dalla camicia di forza della politicizzazione per cercare un rapporto, una sponda con il mondo studentesco, visto che quello operaio diventava sempre più lontano, cominciarono a sciogliersi definitivamente, a fare i conti con se stessi, con i propri fallimenti, con l’impossibilità di infrangere il muro della borghesia dominante, le regole millenarie di articolazione del potere, i parametri dilaganti delle culture ufficiali, dell’intoccabilità del privilegio, della persistenza atavica di bisogni spirituali, sessuali, affettivi, materiali, dove diventava preminente la ricerca della propria identità sommersa dalle sedimentazioni di messaggi familiari, scolastici, sociali. Gran parte dei “settantasettini” rientrarono nel proprio guscio, (il personale) altri, molto pochi, tra cui il gruppo di Peppino, continuarono la militanza politica iniziata nove anni prima, altri ancora, pochissimi, scelsero di liberare il loro disagio attraverso la lotta armata.
“I sintomi di questa “crisi di certezze”, legati a una revisione politica di alcuni temi del movimento del ’77, furono al centro del travaglio interiore attraversato in quei mesi da Peppino e ne trovano la migliore espressione in una sua lettera, poi utilizzata dai carabinieri come prova per avallare la tesi del suicidio.
La critica era rivolta a tutto un modo di concepire la politica solo come politica della propria persona, e quindi come privilegiamento e centralità della soddisfazione dei propri bisogni isolati dal contesto del rapporto sociale e della lotta di classe. Se tutto questo aveva originariamente comportato la demolizione di alcune forme culturali tipiche dell’autoritarismo borghese, per altro aspetto ne segnava un modo di recupero, proprio per la disintegrazione delle coscienze e il disimpegno della militanza, insiti nel rifiuto della struttura organizzata. Si può dire che si riaffacciavano dalla finestra gli aspetti di quella cultura mafiosa gettati via dalla porta, ma quasi connaturati a un certo modo di essere, più orientato verso l’indifferenza qualunquistica che verso la lotta, più verso la scelta di solitudine, legata all’antica sensazione che niente sarebbe cambiato, che verso la strada di un rapporto d’intervento che trae forza dalla socializzazione. Ognuno era un’isola di malcontento e non riusciva a trovare il modo di comunicare con gente nuova e cercare di rompere il cerchio.
Senza dubbio si pagava, ed anche dopo si è pagato, la scelta di essere andati troppo avanti, di avere eretto il rifiuto a sistema di esigenza, la volontà di ritagliare il proprio pezzo di vita senza interferenze e senza voler cadere nella “palude” dell’integrazione e del compromesso con il sistema. L’eterogeneità del gruppo, edili, femministe, diplomati, ragazzi, laureati, studenti, lavoratori giornalieri, quasi tutti disoccupati, trovava un punto d’identificazione solo in questa sensazione di “diversità”, in rapporto ad un esterno sordo, che si rifiutava di ascoltare e che chiedeva sottomissione per offrirti un lavoro e la garanzia di sopravvivenza: conseguente quindi, in molti casi, lo scollamento e il ripiegamento nel microcosmo di se stessi.
Nelle tematiche del movimento del ’77 Peppino si era subito buttato con l’entusiasmo che lo rigenerava nel momento in cui scopriva strade nuove e nuove esperienze di lotta contro il sistema: «riprendiamoci la vita», cioè ristabilire un rapporto diretto con la propria soggettività, era qualcosa di cui avvertiva urgentemente il bisogno.
La sbronza del “personale” era tuttavia troppo fuori dai suoi schemi di militante e di soggetto politico con una solida preparazione marxista: presto ne aveva intravisto i limiti, con l’intuizione politica che lo contraddistingueva, e ne aveva drammaticamente vissuto le conseguenze, constatando lo sfascio generale del “movimento”.
La lettera
La mattina del 9 maggio carabinieri e agenti della Digos fecero irruzione nella casa della zia di Peppino, presso la stazione Cinisi-Terrasini, do¬ve solitamente Peppino dimorava e pernottava. Portarono via sacchi di materiale, libri, appunti e altra roba. Di tutto questo non venne redatto, per quel che ne sappiamo, un dettagliato verbale né fu possibile prenderne visione, tanta era in quel mattino la confusione e il senso di smarrimento.
Tra le cose sequestrate venne trovata la famosa “lettera” che sarebbe il presunto testamento, con il quale Peppino dichiarava di volere abbandonare «la politica e la vita». Chi dirigeva le indagini credette di toccare il cielo con un dito e si buttò su quella lettera, che avrebbe dovuto essere l’elemento probante del suicidio.
Cercando accuratamente tra le poche cose scritte rimaste e sfuggite al sequestro, sono state trovate le note autobiografiche e una seconda copia autografa della lettera. Trascriviamo i due testi, ricopiando, del primo, quello che riporta il “Giornale di Sicilia”, cui il documento è stato fornito da coloro, inquirenti o magistrati, che ne erano venuti in possesso dopo la perquisizione.
«Oggi ho provato un senso profondo di schifo alle 18,30 circa. Sono nove mesi, quanti ne servono per una normale gestazione, che medito sull’opportunità, o forse sulla necessità di “abbandonare” la politica e la vita. Ho cominciato esattamente il 13 febbraio, alla vigilia delle prime manifestazioni studentesche cittadine».
Nelle sue righe poi Impastato esprime il desiderio di ritornare a vivere e a sorridere come nel 1968 e fino a tutto il 1976.
«Le persone peggiori – continua – che ho conosciuto sono proprio i “personalisti” e i cosiddetti “creativi” (ri-creativi, visto che non creano un cazzo): a loro preferisco criminali incalliti, ladri, prostitute, stupratori, assassini e la “canaglia” in genere. Ho buttato la mia sensibilità in pasto ai cani. Ho cercato con tutte le forze che mi restano in corpo di riprendere quota: non ci sono riuscito, anche se confortato dall’affetto e dalla fiducia di compagni, “alcuni” compagni, vecchi e nuovi. Il parto non è stato indolore, ma la decisione è presa. Proclamo pubblicamente il mio fallimento come uomo politico e come rivoluzionario (la frase è sottolineata). Non voglio funerali di alcun genere, dal punto di morte all’obitorio (la sola seconda parte della frase è sottolineata). Gradirei tanto di essere cremato e che le mie ceneri venissero gettate in una pubblica latrina della città, dove piscia più gente. Addio. Giuseppe».
Ed ecco il testo della seconda lettera:
«Sono nove mesi ormai, quanti ne occorrono per una normale gestazione, che medito sull’opportunità, o forse sulla necessità di “abbandonare” la politica. Ho cominciato esattamente il 13 febbraio, vigilia della prima manifestazione studentesca cittadina.
Ricordo molto bene che trascrissi, quel giorno, su una parete del circolo una strofa tratta da una famosa canzone del ’68 in cui si parla di compagne e compagni, di operai e studenti e di “tante facce sorridenti”. Volevo esprimere, con quel gesto, il desiderio di tornare a sorridere e a vivere intensamente come mi succedeva nel ’68 e fino a tutto il ’76. Ma si trattava soltanto di una pietosa aspirazione e ne avevo piena coscienza. Due mesi e mezzo di menate sul “personale” e di allucinanti enunciazioni sul “riprendiamoci la vita” mi avevano aiutato a ritagliarmi notevoli “spazi di morte”, mi avevano annegato in un mare di ipocrisia e di malafede, pregiudicando irrimediabilmente ogni mia possibilità di re¬cupero.
La gente peggiore l’ho conosciuta proprio tra i “personalisti” (cultori del personale) e i cosiddetti “creativi” (ri-creativi): un concentrato di individualismo da porcile e di “raffinata” ipocrisia filistea: a loro preferisco criminali incalliti, ladri stupratori, assassini e la “canaglia” in genere. Debbo purtroppo riconoscere d’aver dato la mia sensibilità in pasto ai cani. Ho cercato con tutte le forze che mi restavano in corpo di riprendere quota, incoraggiato dalla fiducia e dall’affetto di alcuni compagni (vecchi e nuovi): non ce l’ho fatta, bisogna prenderne atto. Il mio sistema nervoso è prossimo al collasso e, sinceramente, non vorrei finire i miei giorni in qualche casa di cura. Ho bisogno, tanto bisogno, di starmene un po’ solo, riposarmi, curarmi. Spero di riuscirci. Il parto non è stato indolore, ma la decisione è ormai presa. Proclamo pubblicamente il mio fallimento come uomo e come rivoluzionario».
Per chi vi presta un po’ d’attenzione, i due testi presentano sostanziali differenze: il primo è stato scritto in un momento emozionale difficile e di sfiducia: simili momenti di crisi depressiva erano tipiche del carattere di Peppino, che poi riusciva a venirne fuori, maggiormente ricaricato, nell’impegno e nella lotta politica, come era successo nel¬le ultime settimane, allorché la campagna elettorale lo aveva visto im-pegnatissimo, al punto da ricorrere alle fleboclisi, per risolvere certi fastidi epatici, e da rifiutare assolutamente di bere alcun tipo di alcolici. Da escludere quindi totalmente che, nei giorni precedenti alla sua morte Peppino fosse abbattuto e depresso. Del resto se è detto: «Ho cominciato il 13 febbraio», e se sono accorsi «nove mesi ormai, quanti ne servono per una normale gestazione», la data della lettera è localizzabile nella prima quindicina del novembre ’77. E dal novembre del ’77 al maggio ’78 intercorrono sette mesi. Nel secondo testo è detto: «Medito sull’opportunità di abbandonare la politica»; si noti, «la politica», non «la vita»; manca inoltre l’ultima parte relativa ai funerali e alle «ceneri». Inoltre la grafia della prima lettera è affrettata e nervosa, in confronto a quella della seconda, che è in caratteri quasi in stampatello e presenta pochissime cancellature: il che dimostra che i due testi sono stati scritti in una breve scadenza di tempo, ma che il secondo rappresenta un momento di superamento del precedente stato di angoscia e di correzione e revisione di alcune frasi del primo.
La volontà di morte, dalla quale ognuno di noi è passato prima o poi, in qualche giorno della sua vita, è superata, e il senso di sfiducia nei riguardi dell’attività politica, che peraltro, nei residui sette mesi non si è concretizzato, è derivato dalla diversa proiezione dell’ombra del Rostagno macondiano, rispetto al militante di Lotta Continua, che tanto aveva colpito Peppino. Certamente l’originaria esperienza nei gruppi marxisti-leninisti aveva lasciato forti radici nella formazione di Peppino, il quale riusciva a concepire l’impegno politico essenzialmente come militanza attiva e, per contro, non riscontrava tale modo di azione in nessuno dei nuovi compagni, da quando il “gruppo storico” si era disperso, soprattutto per motivi di lavoro. La nuova ideologia dei “bisogni”, connessa all’esigenza di non perdere il valore dello stimolo alla “creatività”, avevano creato una serie di problemi e contraddizioni, la cui soluzione, del resto, si presenta ancora problematica per molti compagni della sinistra rivoluzionaria.”
(Salvo Vitale, “Peppino Impastato, una vita contro la mafia”, Rubbettino 2002)