Cartoline dal Muos/ parte I
Niscemi, nel cuore della Sicilia, è oggi – purtroppo – uno dei luoghi più avveniristici del mondo. Vi sta crescendo, con gran paura della popolazione, uno dei quattro sistemi di controllo militare globale del pianeta Terra
Santo Stefano non è stato in Italia un giorno di festa fino al 1947. E’ l’ozioso prolungamento del Natale, il giorno in più, la guaina di sicurezza di un altrimenti disastroso ritorno ai giorni feriali. A volte, è il giorno in cui si smaltisce la sbornia o la crapula.
Una delle risorse primarie della nostra isola è, del resto, l’abbuffata. Tutti ricordano l’orgoglio del presidente Cuffaro, mentre mangiava i suoi cannoli, in barba alle stupide pretese della dietologia, che se applicate, renderebbero triste e misera la vita isolana. In questo nuovo decennio dalla data futuristica, però, una consolidata e valida tradizione gastronomica rischia l’estinzione. Il dolce minacciato trova la sua culla nella capitale del carciofo, Niscemi: è la scumma- che è forse meglio trascrivere schumma per renderne meglio il suono-, una delizia cui l’italica definizione di meringa non rende giustizia. E’ ricavata dall’albume dell’uovo e dallo zucchero. Insieme a questa, è in pericolo il tatò (totò) locale, un biscotto particolare, che trova un suo fratello più noto a Siracusa, dove viene prodotto in foggia macroscopica. I tatò e le schumme rischiano di essere colpiti dalle onde elettromagnetiche, forse dannose, del Muos, un impianto militare americano in costruzione nei pressi di Niscemi. Contro di esso, si è mobilitato un fronte di attivisti e cittadini, che è riuscito a portare in corteo circa cinquemila dei cinque milioni di Siciliani. Purtroppo, però, l’emergenza ambientalista e pacifista ha fatto passare in secondo piano l’importante rivendicazione del palato: possono le antenne danneggiare i dolci di Niscemi? E, se sì, vale la pena rischiare? Gli Americani, del resto, capirebbero la gravità della cosa, seppure non sia certo il danno che il Muos può portare alla fragranza dei biscotti e delle meringhe niscemesi: in fatto di cibo e bevande, hanno sempre imparato da noi e sono ben consci della loro inferiorità su questo piano. Del resto, gli antennoni potrebbero colpire oltre alle schumme, anche i loro principali artigiani, nonché i loro fortunati estimatori: se ne potrebbero perdere segreti e utili opinioni.
Il nostro viaggio conoscitivo di Santo Stefano s’immette su strada nel mattino chiaro. Saranno i segnali stradali o l’abilità del sottoscritto guidatore, ma sbagliamo strada. Finiamo a Contrada Ponte Olivo, dove la strada è interrotta e sorge un diadema di discarica abusiva. Ritorniamo indietro e svoltiamo alla prima per Niscemi. Sembra un segnale di demarcazione del territorio, come a segnalare l’entrata in una zona di conflitto: “No Muos”, scritto con uno spray rosso sul muro di una centralina elettrica. La strada di curve e pendii ci porta all’ingresso del centro abitato, che ci si palesa nel suo profilo arabico: case senza rifiniture esterne, con i mattoni avani e gialli in bella vista. Sulla sommità dei tetti, perlopiù piani, recipienti d’acqua blu: da queste parti quello idrico è un problema serio. Gli sguardi dei paesani ci si buttano addosso, indagatori. Noi- per meglio dire il sottoscritto- perdiamo la strada. Qua e là bandiere del No Muos, esposte sui balconi. Perlomeno, non abbiamo sbagliato paese. C’è persino una bandiera attaccata a una ringhiera a ridosso della caserma dei Carabinieri.
In giro, solo branchi di canuti arrancano con i loro bastoni o disquisiscono nella locale varietà del siciliano. Il primo ragazzo che vediamo è un tipo in carne, abbarbicato a una panchina. Capelli corti, forse quasi ventenne, con la pelle dei Mori cucita addosso. Gli chiediamo dove sia la piazza principale. Lui è nel panico più assoluto. Si volta alla sua sinistra, un latrato gli sale su dall’esofago: «Ahu! Ahu! A tìa vonu (cercano te)!». Si rivolge a un ultrasessantenne, piazzato su una sedia e rapito nella sua quiete. Si ripete una seconda volta, mentre il pensionato si muove con lentezza. Sembrerebbe volersi portare la sedia fino a sotto la macchina; poi, avanza senza. Il ragazzo, nel frattempo, si è avvicinato, sembra perduto. Si volta descrivendo un percorso curvo con la mano, dicendoci: «A chiazza (la piazza)». Il vegliardo è ormai vicino, quando il giovane ci fa segno di aspettare, compulsivamente. Il signore anziano indossa lenti scure, sotto il tasco; ha l’unghia del mignolo lunga, che può voler significare una manifestazione di malindrineria o comando in un ordine gerarchico, se non una sua scarsa propensione all’igiene. Le sue indicazioni lasciano spazio all’interpretazione: «Voi dovete prendere la strada che ci diciamo (ndr, leggi “che noi Niscemesi chiamiamo”) “il ponte”» e poi «E la strada che ci dicono… Come ci dicono? Nun mou rivordu (non ricordo)». Indicandoci il segnale di divieto di transito, fa più o meno così: «Di qua non ci si può prendere, ma se volete ci potete andare».
Non era la nostra meta, ma una tappa prevista, così, quando capitiamo a Masciò, non possiamo che fermarci. Qui una lunga tradizione di famiglia è infusa nel biscottificio in cui entriamo. I dolci bianchi con il cartellino “meringhe” sono in bella mostra. «Noi le chiamiamo schummi» ci fa il quarantenne dietro il banco. I tatò al cioccolato sono esauriti, mentre quelli classici ci sono ancora. Riponiamo il bottino in due sacchetti di carta e ci facciamo spiegare come raggiungere la grande attrazione turistica del luogo, la base militare dove sorgerà il Muos.