La lunga attesa di Felicia
Felicia Impastato, “mamma Felicia” per i ragazzi dell’antimafia, raccontata da un vecchio compagno e amico di Peppino. Amore e sofferenza, e una siciliana ironia
Ho conosciuto Felicia intorno al ’67, quando cominciai a frequentare la casa di Peppino e con lui ci scambiavamo qualche libro o qualche giornale. In quel tempo la ricordo come un’ombra silenziosa, la classica “vestale” del focolare domestico: solo chi avesse guardato bene i suoi occhi avrebbe potuto intravedervi un dramma interiore di cui all’apparenza non c’era segno.
Mi resi conto di questo anni dopo, quando mi disse, tra un singhiozzo e l’altro: “un martirio…quello che ho passato….la dittatura…sul niente attaccava brighe…disperazione e paura…quando lo sentivo arrivare mi pisciavo addosso…mai una parola dolce, mai uno svago, mai una festa, mai una lira…teneva tutto in mano…mi faceva uscire solo per andare a trovare Tanino Badalamenti e parlare con sua moglie…mai un regalo, quello che ho passato, solo io lo so, e anche Peppino se lo immaginava, mi diceva: “io vegnu cà sulu pi tia” (1).
Nel suo silenzio non c’era ostilità né diffidenza: io ero l’amico di suo figlio, il nipote di Cola Maltese, quello del Molinazzo, non certo quello che lo portava sulla cattiva strada. Peppino abitava ancora in famiglia e suo padre contava su di me perché lo stimolassi a studiare e a prendersi “un pezzo di carta”. Successivamente, quando si accorse che tutto era inutile lo buttò fuori di casa, per dare agli “amici” una stupida dimostrazione di forza e di presa di distanza.
Peppino andò ad abitare alla stazione, con la zia Fara, una sorella di Felicia, che lo aveva ospitato più volte e che fu per lui come una seconda madre. Quando Fara restò vedova, egli si trasferì definitivamente nella casa della stazione per farle compagnia e lì rimase, anche dopo la morte del padre. Morto Peppino, Fara si trasferì a casa di Felicia: due donne sole che si tenevano compagnia. Fara era una donna molto semplice e silenziosa: aveva sofferto per la morte di Peppino come per quella di un figlio, ma sapeva nascondere bene la sua sofferenza.
Cominciai a scoprire un’altra Felicia cinque giorni dopo la morte di Peppino, ovvero il 13 maggio 1978, giorno delle elezioni comunali: in quella circostanza, rompendo una regola secolare che imponeva a chi è a lutto di non uscire di casa almeno per il primo mese, Felicia e sua sorella Fara si recarono al seggio elettorale a votare per Peppino. Poco prima dell’ingresso al seggio c’erano due galoppini che distribuivano facsimili democristiani: quando videro Felicia e Fara si avvicinarono per fare le condoglianze, dicendo loro che stavano invitando la gente a votare per Peppino e per la sua lista: Felicia li guardò con fierezza, quasi con disprezzo, senza dire una parola: non appena le due donne voltarono le spalle, essi continuarono a distribuire i loro facsimili.
Da quel momento non volle più ricevere i fratelli e parenti del marito, tra i quali Iacuzzu (Giacomo), detto “U Sinnacheddu” e Peppino, detto “Sputafuoco”, mafiosi di rango, a cui imputava la responsabilità di avere dato il proprio assenso alla decisione di uccidere suo figlio.
La sua casa divenne per noi quasi un posto di pellegrinaggio: a turno andavamo a trovarla e lei era sempre curiosa di sapere cosa stava succedendo fuori. Il suo “Chi è? Cu c’è? Chi stati cumminannu? Stamu attenti e ‘un vi raccumannu autru” rivelava, per un verso, una sorta di vicinanza affettiva e di partecipazione spirituale alle nostre iniziative, per l’altro la paura che non ci succedesse qualcosa, ma, più di tutto, che non succedesse qualcosa al figlio Giovanni. Per tutti noi compagni di Peppino era diventata “mamma Felicia”, la madre che tutti avremmo voluto avere. Una volta mi disse: “Quannu viru a tia è comu si virissi a me figghiu”, lasciandomi commosso per un intero giorno.
Uscì di casa pochissime volte: per andare a votare o per difendere in tribunale l’immagine del figlio, ma era sempre bene informata, sia di quello che succedeva in paese, sia di quello che succedeva in Italia e nel mondo: sue fonti la televisione e alcuni parenti e vicini di casa, tra cui una cugina, Maria, detta Parasacca e il fratello di lei Peppino, Parasaccu anche lui, malato di cancro al polmone, il quale scelse di morire continuando a fumare le sue nazionali senza filtro.
Un giorno Maria le portò la strana notizia che Procopio Di Maggio, il boss locale, da sempre nemico di Badalamenti, aveva fatto sapere della sua intenzione di rendere giustizia a Peppino e alla sua famiglia e che andava cercando “Tanino” per liquidarlo. Felicia la guardò con sufficienza e le rispose : “Non per mio figlio, ma per suo figlio”. Nella sua risposta si nascondeva tutta una storia: uno dei figli di Procopio, che corteggiava una figlia di Sarino Badalamenti, era infatti morto in uno strano incidente: poiché i Badalamenti erano contrari a questo rapporto, Procopio si era convinto che fossero stati loro a liquidarlo. Felicia conosceva bene il modo di ragionare dei mafiosi.
Aveva anche una memoria lucidissima ed era in grado di raccontare episodi anche lontanissimi della sua vita e della vita del paese, come ha fatto nella lunga intervista pubblicata ne “La mafia a casa mia”
Non aveva peli sulla lingua per nessuno: qualche mese dopo la morte di Peppino venne convocata dal giudice Signorino, che conduceva le indagini e, mentre aspettava, venne avvicinata da una persona con un taccuino in mano: “Signora, mi chiamo Mario Francese e sono un giornalista del Giornale di Sicilia. Posso farle qualche domanda?”. La risposta di Felicia fu violenta: “Non voglio parlare con nessuno. Voi giornalisti avete trattato mio figlio come un criminale”. Si addolcì un po’ quando Francese le disse di essere convinto anche lui che Peppino era stato ucciso da Badalamenti e parlarono per un bel po’. Non poteva sapere che qualche mese dopo, il 27 gennaio del ’79, quel giornalista sarebbe stato ucciso, come suo figlio, dalla stessa mafia.
Tra il 1981 e il 1990 la guerra di mafia arrivò a Cinisi lasciando sul terreno una quarantina di morti: fu il massacro della cosca dei Badalamenti, (che Mario Francese chiamava “dei guanti di velluto”) ad opera dei Corleonesi di Totò Riina e dei loro alleati locali. Quando nell’81 venne ucciso Nino Badalamenti e mi recai da Felicia, il suo commento fu spietato e preciso: “Buonu ficiru: appi chiddu chi si miritava”. Felicia ignorava, o sospettava solamente che Nino Badalamenti era stato uno degli assassini di suo figlio, come verrà poi testimoniato dal pentito Salvatore Palazzolo. Nella radicalità del suo rancore era rimasta una traccia visibile di quella cultura mafiosa nella quale era stata educata e dentro la quale era stata cresciuta. Nessuna ombra di pietà dentro il suo dolore, dove il suo desiderio di giustizia si mescolava con la voglia di vendetta. Nessun perdono nei confronti di chi l’aveva privata di una parte del suo sangue. Felicia non sapeva fare l’ipocrita e non aveva nessuna voglia di perdonare. A chi glielo chiedeva, rispondeva in maniera netta: “Vorrei capire perché dovrei perdonare un mafioso che ha ucciso mio figlio, soprattutto se non ha mai chiesto perdono. Il Signore deve perdonarlo, se ci riesce, perché viene difficile pure a lui e li manderà tutti all’inferno”.
Non ci si dovrebbe rallegrare per la fine violenta d’una persona, ma, in quella occasione mi scappò di dirle: “Allora dobbiamo brindare”. Non se lo fece dire due volte: tirò fuori dalla vecchia vetrina una polverosa bottiglia di amaretto e due bicchierini: appena poche gocce per un brindisi, più simbolico che reale, tra due persone profondamente ferite dentro.
Da allora quel gesto divenne un’abitudine, quasi una forma di complicità: tornammo a ripeterlo per l’omicidio di Giuseppe Finazzo, “u Parrineddu”, indiziato nell’omicidio di Peppino, dalle cui cave era presumibilmente uscito il tritolo per farlo saltare in aria. In quell’occasione, ancora una volta i carabinieri, invece di indirizzare le indagini negli ambienti mafiosi, effettuarono una perquisizione nella casa a di Giovanni Impastato, proprio dirimpetto a quella di Felicia, sospettandolo dell’omicidio, per vendetta. Felicia ebbe una reazione violenta, gridando ai carabinieri: “Chi vuliti? Nun v’abbastau a prima vota? Ca ‘un c’è nienti. Itivi a circari l’assassini nna li casi d’i mafiusi” (Che volete? Non vi è bastato la prima volta? Qua non c’è niente. Andate a cercare gli assassini nelle case dei mafiosi)
Tornammo a brindare per la morte di Leonardo Galante, di Natale Badalamenti, di Leonardo Rimi. Poi ci fermammo, non solo perché la bottiglia era quasi alla fine, ma perché quel gioco non ci piaceva più e non ci apparteneva più. Una lunga pausa durata molti anni, a parte un cin cin per l’arresto di Badalamenti (1984) e per la morte di Ciccio Di Trapani, (1996), da noi sospettato e poi anche lui indicato dal pentito Salvatore Palazzolo come uno dei killer di Peppino.
Intanto la figura di Peppino intanto cominciava a varcare i confini del suo territorio e ad essere nota a una cerchia sempre più vasta di persone. La casa di corso Umberto I, oggi ribattezzata “Casa Memoria”, dove fa bella mostra una lapide messa privatamente per iniziativa del Centro Impastato, è diventata nel tempo un punto di riferimento e d’incontro per i ragazzi e per ogni genere di persone che si riconoscono nelle idee e nella lotta di Peppino contro il dominio mafioso. Una cosa che lei amava dire spesso era che la sua era una casa viva e piena di gente, quella di Badalamenti chiusa e deserta.
Nessun brindisi neanche per la condanna di Vito Palazzolo prima e di Tano Badalamenti poi, nel 2002. Felicia aveva pazientemente atteso quel momento. Era sopravvissuta a un ictus cerebrale, che l’aveva costretta anche a un’operazione, era sopravvissuta alla rottura del femore, alla sua difficoltà di respirazione, alla bronchite, all’asma, alla morte della sorella Fara solo per arrivare a quel momento, aspettato da venti anni. Il suo gesto nell’indicare , secco e spietato, la sua voce ferma nell’accusare Badalamenti dell’assassinio del figlio, il suo terribile: “Assassino, tu fusti” hanno avuto un ruolo decisivo per giungere alla condanna dei due mafiosi.
In quella donna magra, vestita di nero, che a stento riusciva a muoversi, ma che conservava dentro tanta rabbia e tanta energia, c’erano tutte le donne siciliane, c’era il riscatto della loro dignità dopo secoli di silenzio, di umiliazioni, di violenze subite, di sopportazione.
Le manifestazioni molto partecipate degli ultimi anni le hanno riempito il cuore di gioia: puntualmente si affacciava a salutare, mentre un’onda di gente urlava il suo nome. Nei suoi occhi ci fu una forte commozione quando venne la Commissione Antimafia a consegnarle la propria inchiesta sul depistaggio iniziale delle indagini, assieme alla lettera di Peppino, usata proditoriamente come prova per giustificare l’ipotesi del suicidio: nel momento in cui Beppe Lumia chiese scusa, in nome dello stato, per gli errori allora fatti e per la mancata giustizia, Felicia disse: “E’ come se mi aveste restituito Peppino ancora vivo”.
Non potevo mancare di andarla a trovare appena sentito della morte di Gaetano Badalamenti, il 30 aprile del 2004: si era diffusa la voce che il boss potesse tornare in Italia per estradizione o per condono della pena; c’era il timore che ricominciasse l’attesa snervante di giustizia attraverso il processo di appello, ma di colpo ogni timore venne meno e forse da quel momento Felicia cominciò ad avvertire di avere ormai chiuso vittoriosamente e definitivamente la sua lunga attesa e il suo conto con la vita. Si era vendicata degli assassini e li aveva seppelliti. Le chiesi se l’era rimasto qualche goccio d’amaretto per l’ultimo brindisi. Mi rispose: “Figghiu meu, quannu ntisi ca ddu porcu avia murutu, dd’anticchia chi c’era m’u vippi tuttu” ( Figlio mio, quando ho sentito che quel porco era morto, quel po’ che c’era me lo sono bevuto tutto). Qualcuno mi ha rimproverato per avere raccontato questo personale ricordo, con un’osservazione tipicamente cinisara: “I cristiani chi hannu a diri, ca era na ‘mbriacuna?” (le persone cosa devono dire, che era un’ubriacona?). Come se bere poche gocce significasse ubriacarsi: in tal senso anche i preti dovrebbero essere ubriaconi, quando celebrano la messa. E poi, chi se ne frega di quello che possono dire “i cristiani”?