Il voto senza attese di un Paese senz’anima
Tempo di elezioni. Nonostante le attese, nulla di epocale…
La classe politica, vecchia e nuova, da una parte e il Paese dall’altra a cercare di capire non cosa sia meglio ma cosa sia meno peggio. Non perché ci sia un deficit da parte dei partiti in termini di progetto o di costruzione di programmi e architetture di governo, ma perché sono gli italiani a non avere nessuna idea di come uscire da una crisi economica, sociale, etica e culturale che ha trascinato il paese in un vortice, nel collo di un imbuto che tutto inghiotte e tutto fa ricadere al suolo.
Bisognerebbe ringraziare Mario Monti per aver dissipato ogni dubbio sulla vera natura del suo progetto politico e culturale con la sua discesa in campo. Altro che “salita”. Ha scelto di far emergere il gioco sporco (e basso) che ha tenuto in piedi il suo governo: rappresentare gli interessi di un’élite ristretta (molto più angusta della presunta borghesia italiana) a discapito del paese, della maggioranza dei cittadini e dell’insieme di bisogni (molto diversi dagli interessi) degli italiani. Un’élite che non ha nessun punto di contatto con la realtà produttiva ed economica nazionale (ed anche europea) ma che guarda solo agli utili finanziari a breve durata. E che ha governato per un anno prima millantando una missione salvifica e poi con la minaccia di un fantomatico Armageddon: “senza noi il baratro”. A dimostrazione di quale sia il vero mandato di Monti il disagio di pezzi importanti (anche clericali) del cosiddetto mondo cattolico che pur appoggiandolo non mancano occasione di chiedere a gran voce una maggiore attenzione al sociale e all’economia reale e una via di uscita dall’ossessione finanziaria del professore.
Ulteriore conferma di quale sia il mondo di riferimento di Monti e di quanto sia stato poco tecnico e molto invece corporativistico e politico il suo mandato di governo ci viene fornita dai comportamenti del professore sulle alleanze non tanto a livello nazionale quanto in Lombardia con l’appoggio al candidato Albertini in chiave anti centro sinistra. Appoggio dietro il quale ci sarebbe come architetto Gianni Letta che sta cercando, con la sua usuale abilità, di creare i presupposti per rendere instabile un governo nazionale di centro sinistra a guida Pd/Sel sottraendo, attraverso i cavilli del porcellum, la maggioranza assoluta alla coalizione guidata da Pierluigi Bersani al Senato e costringendo quindi il Pd a cercare un’alleanza post elettorale con lo strano oggetto politico montiano. E quindi con i poteri che rappresenta. La chiave delle prossime elezioni è in Lombardia. E sul voto e sul premio di maggioranza sul piano regionale previsto dalla attuale legge al Senato. Basta un voto in meno in Lombardia per togliere la maggioranza assoluta alla coalizione Pd/Sel.
E’ Berlusconi che comanda Letta o è Letta che condiziona Berlusconi? Letta è uomo di contatto (e di governo?) di un certo mondo culturale e finanziario Italiano. Ben prima dell’innamoramento con il cavaliere. Non è un caso che sia il fondatore (e il condizionatore) di un oggetto particolare come L’Aspen Institute Italia, dove politici e esponenti del mondo economico e finanziario, si incontrano “riservatamente” (non lo diciamo noi ma lo stesso statuto dell’Istituto) per studiare assieme strategie comuni. Una sorta di forum delle lobby principalmente finanziarie che da vent’anni almeno ha cercato di condizionare le scelte economiche e politiche non solo dei governi guidati da Silvio Berluscuni ma anche quelli guidati dal centro sinistra. Che Letta sia stato in tutti i governi del cavaliere il braccio destro del premier (senza passare mai attraverso la verifica del voto) racconta quanto questi sia stato uomo di garanzia per la finanza italiana (e non solo) e forse di “vigilanza” per tenere sotto controllo il tornado Silvio. Ed è anche interessante rilevare come si tenesse in disparte nelle convulse fasi finali del governo Pdl/Lega e come cercò in tutti i modi di tenere bassi i toni nel passaggio di consegne fra Berlusconi e Monti. Che Letta oggi sia artefice dei giochetti di prestigio in Lombardia in favore di Monti (nonostante il suo presunto “padrone” tuoni ogni giorno contro il professore) dimostra quanto e come le lobby che siedono al tavolo delle riunioni riservate alla Aspen siano attive in questi tempi.
In questo tipo di scenario Berlusconi assume più che la caratteristica di un avversario del centro sinistra quella di un’arma utilizzata dal potere finanziario per condizionare le scelte di governo del Pd attraverso, se il progetto avrà successo, un’alleanza obbligata di Bersani con Monti per garantire il sogno di governabilità. E le alleanze significano precisi punti programmatici (no alla patrimoniale e no alla tassazione delle rendite e transazioni finanziarie). Berlusconi ha pochissime possibilità di vincere le elezioni, Bersani ne ha molte di vincerle zoppe, cioè con la maggioranza assoluta solo alla Camera e con l’obbligo quindi di trattare con Monti.
Il centro sinistra e qualcosa che si muove. Le primarie per la scelta per il premier prima e per selezionare parte dei candidati al parlamento poi, hanno innescato, purtroppo timidamente, un meccanismo di rinnovamento della classe politica. Purtroppo il cosiddetti “listini” (che sono diventati dei listoni per cercare di accontentare correnti e correntine) hanno condizionato e non poco sia il Pd che Sel. Inaspettatamente è il Pd che sembra aver metabolizzato meglio il meccanismo primarie. In particolare grazie all’ingresso di moltissime donne in posizioni “eleggibili” nelle liste elettorali. Questa è una novità di non poco conto che però ha riguardato se non marginalmente anche la composizione delle liste di Sel. Alla fine la struttura partito del Pd (con tutte le sue difficoltà e contraddizioni) si è aperto più del partito di Vendola. In parte favorito anche dall’apparente ritirata degli eterni duellanti Veltroni e D’Alema. In parte perché Vendola, che guida un cartello elettorale più che un partito tenuto insieme più dal suo carisma che da un progetto culturale comune anche se contraddittorio come quello del Pd, ha subito di più le pressioni dei varie anime della sua organizzazione. E ancora, Sel non ha trovato una forma di organizzazione e di rappresentanza interna delle varie anime e priorità che gli consentissero di avviarsi in termini ancora più evidenti del Pd a un processo di apertura e di rinnovamento del ceto politico.
In ogni caso l’alleanza di centro sinistra sembra tenere, il programma anche se “monco” su molti piani ha una sua forma e un suo chiaro indirizzo. Che reggerà anche con una maggioranza chiara alla Camera a fronte di un mancato obiettivo “di sicurezza” al Senato? La questione è tutta lì. Con la necessità di aprire al centro montiano per governare cosa accadrà alla coalizione nata dal popolo delle primarie?
Il sospetto è che ci sia all’interno del Pd chi si augura una mancata maggioranza al Senato per imbarcare il professore. Con effetti a medio termine pesanti per il centro sinistra che probabilmente deflagrerebbe con conseguenze (visto il momento storico che stiamo attraversando) ben peggiori di quelle provocate dalla caduta del secondo governo Prodi nel 2008.
Grillo e i limiti di un partito da personale a messianico. Il comico genovese, nonostante i proclami e lo tsunami tour (scrivo nel giorno di partenza della campagna elettorale di M5S) sta attraversando un momentaccio. L’abbraccio con Gianroberto Casaleggio si è fatto troppo stretto, gli ha provocato un sacco di guai (mezzo movimento in Emilia espulso, problemi anche in Piemonte e polemiche a non finire interne ed esterne sulla democrazia nel M5S). Per il resto ha fatto il carattere del “messia” (parola sempre del buon Gianroberto) che non tollera discussioni, dibattiti e tanto meno critiche. Si è capito ormai che l’unica forma di democrazia tollerata da Grillo è la democrazia “diretta” da lui. Poi a metterlo in difficoltà c’è anche un programma elettorale che spesso si contraddice da se, che guarda poco alla realtà economica del paese (mica basta urlare contro l’euro per essere credibili imitando o facendosi imitare solo da Berlusconi) e che non tocca i problemi chiave che affliggono gli italiani: peso della tassazione e lavoro. E gli effetti si vedono. Il M5S sta erodendo il consenso nei sondaggi. E non di poco. Certo, il fenomeno M5S rimane lì dove il movimento si è mosso, a prescindere da Grillo e da Casaleggio, sul territorio. Ma si sta trasformando da consenso diffuso di opinione a consenso esclusivamente fidelizzato. E in termini percentuali al voto fra una forte spinta degli elettori “free” e quelli “di movimento” questa stretta si farà sentire. Anche perché amici e ex amici caduti in disgrazia in conseguenze qualche impennata umorale di troppo del “messia” si sono organizzati. E andranno a pescare nello stesso bacino elettorale di Grillo.
Parliamo ovviamente di Antonio Ingroia e del cartello elettorale che si è raccolto attorno alla sua candidatura. Un cartello strano assai, dove la convivenza fra Ferrero, Diliberto, Bonelli, De Magistris e Di Pietro e pezzi dell’Antimafia e dei movimenti sociali sarà sicuramente difficile. Molto complicata anche se su alcuni punti sono riusciti a trovare un quadra a prima vista improbabile. Non me ne voglia l’ex procuratore aggiunto di Palermo, ma le prime mosse sue e della novella formazione politica sono state non proprio all’altezza delle aspettative visto il valore della sua candidatura. Prima l’attacco a Pietro Grasso, l’ex procuratore nazionale antimafia candidato nelle fila del Pd, poi le polemiche sempre verso il Pd per la mancata risposta da parte di Bersani a sue ripetute richieste di contatto potevano essere facilmente evitate e comunque hanno rappresentato una repentina caduta di stile. Che ben poco ha portato al suo progetto e molto invece ai suoi detrattori. Un peccato, perché nonostante il cartello spurio che si è formato, il tentativo serio di dare voce a chi spesso voce e rappresentanza non la ha era ed è una cosa seria e importante. Ancora più importante dopo la cancellazione dal Parlamento nel 2008 di temi e realtà che un peso e un valore ben più rilevanti della semplice testimonianza ne hanno.
Probabilmente ha giocato il fattore della mancata esperienza a inficiare in parte le prime mosse di Ingroia. Non basta, in questa fase e sempre, essere un magistrato del valore dell’ex pm per scendere in politica e conquistarsi spazi e interlocuzioni con altri soggetti. Cercando di ignorare, poi, le difficoltà di Bersani con Di Pietro da un lato e di Vendola con Ferrero e Diliberto dall’altro. La recente storia politica (e in alcuni casi personale) non è ignorabile e soprattutto non va sottovalutata.
E’ il Paese il grande malato, la politica di conseguenza. La cultura del berlusconismo è difficile da cancellare e superare in così poco tempo. Ha inquinato la società ben più profondamente di quanto si potesse immaginare. Non ha solo rappresentato un pezzo del paese, ha penetrato profondamente etica, cultura, tenuta sociale, processi di coesione, percezione della realtà. Il berlusconismo, che va ben oltre alla figura di Berlusconi, rappresenta la faccia maggioritaria anche se occultata dell’Italia. Di questa Italia che non riesce a scrollarsi di dosso egoismi e furbizie mutuate dall’ormai ex unto del signore e che si incupisce oggi nell’inasprirsi della crisi. E che vede emergere gli istinti peggiori e i poteri più occulti.
Che la grande criminalità organizzata sembri (in particolare in Sicilia) stare lontana dalla politica non significa che questa non stia già cercando di individuare chi saranno i prossimi interlocutori con cui sedersi al tavolo o ai quali apparentemente mettersi al servizio per inquinarli e condizionarli a caccia di guadagno e impunità. Che l’élite finanziaria, direttamente con Monti e indirettamente con il ricatto di un ipotetico default, intenda soffiare sul fuoco della recessione per continuare a speculare sui flussi provocati dagli sbalzi borsistici e dai parametri di indebitamento rende chiaro chi vuole guadagnare sulle spalle del paese reale. Che il paese sia diventato socialmente egoista, che la già ampia fascia di poveri dell’ultima stagione berlusconiana sia precipitata dalla povertà alla condizione di miseria e che la classe media stia repentinamente contraendosi rende evidente lo stato di ricattabilità sociale di questo paese. Un paese che svuota il concetto di sovranità popolare cedendolo a una presunzione di governabilità. Dalle politiche sociali a quelle del contenimento del disagio in gabbie fra loro impermeabili.
E l’unica via di uscita è che la società e la politica trovino il coraggio di ricostruire quelle reti di relazioni e di elaborazione collettiva che trasformino questa palude di interessi corporativistici e personali che hanno attraversato questo ventennio in un processo di ricostruzione culturale e sociale per tornare ad essere un paese europeo e non una tragica barzelletta.