giovedì, Novembre 21, 2024
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Minardo e Prestigiacomo: le mani sull’oro nero

Petrolio al largo di Poz­zallo. E subito, i “soliti noti”…

Si discute di un possibile allargamen­to della piattaforma petrolifera Vega a largo di Pozzallo. E tra i soliti noti dell’imprenditoria siciliana c’è chi si frega le mani odorando il petrolio. Si fiutano affari da centinaia di milioni di euro.

Nel caso delle piattaforme Vega l’affare per l’imprenditoria locale si chiama “Leo­nis”. Si tratta della nave appoggio messa in funzione nel 2009 in seguito alla di­smissione della Vega Oil, protagonista di una vicenda approdata in questi mesi in tribunale.

La Leonis, colosso galleggiante da 110 mila tonnellate ricavato dalla trasforma­zione dell’ex petroliera Leonis in FSO (Floating Storage Offloading), è ormeg­giata a circa 2 miglia dalla piattaforma Vega ed è ad essa collegata tramite con­dotte sottomarine.

La nave è adibita alla ricezione del greggio estratto, al suo pre­trattamento, e infine al trasferimento sulle petroliere che trasportano il greggio verso gli impianti di raffinazione.

Ad aggiudicarsi la gara d’appalto indet­ta da Edison, il Consorzio CEM (Con­struction, Erection and Maintenance), che dopo aver acquistato Leonis dalla Fratelli D’Amico Armatori Spa, ha eseguito i la­vori per la trasformazione della petroliera in FSO e ne è divenuto noleggiatore.

Un’operazione da oltre 110 milioni di euro, di cui 80 anticipati da Eni ed Edison in cambio di un contratto di noleggio a lungo termine e 34, destinati all’acquisi­zione dell’unità navale e alla copertura dei lavori di trasformazione in FSO, versati dal gruppo UniCredit.

Terminati i lavori di conversione, nel 2009 la Leonis è stata rimorchiata dai cantieri di Augusta sino al sito della con­nessione con la piattaforma Vega.

Già nel periodo dell’inaugurazione, av­venuta nel 2008, l’allora Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo era “oggetto” di interrogazioni parlamentari che sollevavano un conflitto d’interessi. Il compito del Ministro era infatti quello di vigilare sull’operato di colossi petroliferi clienti delle aziende di famiglia.

Del CEM, consorzio formato da alcune tra le maggiori imprese siciliane di pro­gettazione, costruzione e montaggio indu­striale, fa infatti parte la Coemi Spa, im­presa di famiglia dei Prestigiacomo nata nel 1974 a Priolo, che oggi vanta, tra gli altri, clienti come Eni, Erg, Esso, Enel, Siemens. L’amministratore delegato è Ma­ria Prestigiacomo, sorella dell’ex Mi­nistro.

Ma non finisce qui: la Coemi è control­lata dalla Holding Fincoe Srl che ne pos­siede il 99%. A detenere gran parte delle quote Fincoe proprio la famiglia della Prestigiacomo, con un 9,7% intestato al padre Giuseppe, un 21,5% alla sorella Maria Pia e un altro 21,5% a Stefania fino al 2009, quando la quota è passata alla madre.

Ma la Leonis riserva altre sorpre­se. Tra i “noti” che hanno fiutato l’affare figurano famosi personaggi dell’impren­ditoria nel­la nostra provincia.

Il “Progetto Leonis” è la punta di dia­mante della Tea Shipping Srl, una società di gestione marittima e navale con sede legale a Milano e sedi operative a Milano e Pozzallo, che si occupa dell’unità navale in questione. Amministratore unico di questa società è Raimondo Minardo, fi­glio del più famo­so Saro.

All’interno della società figura anche Marco La Pira, socio in un’altra azienda impegnata nel settore marittimo insieme a Riccardo Radenza, imprendito­re nel settore alimentare e Giorgio Zacca­ria, figlio dell’imprenditore edile Giusep­pe.

Altro socio della Tea Shipping è Massimo La Pira, ex assessore dell’Udc e del Pdl a Pozzallo, coinvolto ed assolto nell’inchiesta Modica Bene.

Sebbene il settore petrolifero sia desti­nato ad esaurirsi nel giro di pochi anni, pare proprio che esso consenta ancora ai signori del petrolio di fare affari. Se il rad­doppio del campo Vega dovesse essere approvato, la Leonis continuerebbe la sua attività anche per la nuova piattaforma, che sarà collegata alla prima.

Così, mentre dal Ministero dello Svi­luppo economico fanno sapere che lo sce­nario di sviluppo in Italia non supera i set­te anni per l’estrazione di gas e i quattor­dici per l’olio greggio, i nomi che contano continuano a investire sull’oro nero. Fino all’ultima goccia.

LA TRIVELLA

“MARI SPIRTUSIATU E SODDI NENTI”

È di nuovo febbre dell’oro. Ma sta­volta è nero e lo scenario è il Canale di Sicilia. A riaprire la corsa è il Piano Energetico re­datto dal Ministro per Svi­luppo Economico, Corrado Passera, che intende portare la produzione di petro­lio, che attualmente copre solo il 10% del fabbisogno nazionale, alla copertura del 20% della domanda.

Una strategia che chiude le porte alle ener­gie alternative e le spalanca ai si­gnori del petrolio con un susse­guirsi di richieste, concessioni e permessi per esplorare e bucare altro fondale ma­rino; un decreto che fa ripartire tutti i proce­dimenti per la ricerca e l’estrazione di petrolio che erano stati bloccati nel 2010 dopo l’incidente a una piattaforma che ha de­vastato il Golfo del Mes­sico.

Il programma piace molto alle grandi società d’estrazione per­ché contiene la proposta di aboli­zione del limite di 12 miglia dalla costa entro il quale non si possono impiantare trivelle.

Ma a cantare vittoria sono per lo più le società petrolifere este­re, le quali de­finiscono l’Italia “il miglior Paese in cui avviare l’attività di estrazione”. Il motivo di tanto entusiasmo è il regime fiscale a totale svantaggio dello Stato, che prevede royalties per l’estrazione di idrocarburi in territorio italiano del 4% per il pe­trolio e del 7% per il gas a fron­te di una media mondiale dei quasi l’80%.

Inoltre una franchigia fa sì che i de­tentori delle concessioni versino la per­centuale solo in caso di estrazione di al­meno 300 mila barili l’anno. Nessun li­mite infine, per il rimpatrio degli utili.

Non c’è da stupirsi quindi se delle quarantuno istanze per per­messi di ri­cerca nel territorio italiano attualmente in valuta­zione, solo tre facciano capo a compagnie italiane (Eni ed Enel).

Ad oggi i permessi di ricerca petroli­fera già rilasciati nel mare italiano sono 19, di cui ben 11 nel canale di Sicilia per un totale di 6815 kmq di superficie marina. Oltre ai permessi già rilascia­ti, pendono sul Canale di Sicilia 18 richie­ste di permessi di ricer­ca per oltre 5mila kmq, di cui la metà in corso di valutazione ambientale: è il caso della piattaforma Vega B.

Sul tavolo del Ministro, da fine lu­glio, anche la richiesta pre­sentata da Edison per realizzare l’impianto di per­forazione Vega B all’interno della con­cessione petrolifera C.C6.EO. Un altro impianto di estrazione dovrebbe quindi sorgere a circa 6 Km a ovest della Vega A, la piattaforma appartenente a Edison per il 60% e ad Eni per il 40%, attual­mente attiva a una distanza di12 miglia dalla costa pozzallese. La più grande piattaforma off sho­re italiana, realizzata nel 1984 e attivata tre anni dopo, produ­ce olio greggio e gas naturale da venti pozzi.

Il suo raddoppio metterebbe in produ­zione la seconda sacca petrolifera che fa parte della medesima concessione.

E mentre la procedura per la realizza­zione della Vega B appro­da al Ministero dell’Ambiente in attesa di VIA, alcuni dati non sono certamente incoraggianti.

Nonostante il bilancio di 25 anni di attività della Vega A sia di quasi 60 mi­lioni di barili di petrolio prodotti, i pro­fitti dello Sta­to Italiano rasentano la nullità.

Secondo un calcolo approssimativo la Vega A ha prodotto, dalla sola estrazio­ne di greggio, circa 500 milioni di euro, ver­sando allo Stato neanche 5 milioni.

Nessuna percentuale invece sui gas naturali, che Edison ed Eni hanno “ac­curatamente” estratto entro franchigia. Mari spir­tusiatu e soddi nenti.

Enrica Frasca Caccia

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