lunedì, Novembre 25, 2024
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Lezione di giornalismo

Arrestano due dei tre fratelli Giacobbe a Pessano con Bornago, nel milanese. Il Giorno (www.ilgiorno.it) ne fa la cronaca, sotto forma di intervista. A parlare è il padre, Salvatore Giacobbe, boss della ‘ndrangheta condannato a vent’anni di carcere per associazione mafiosa. Vale la pena di leggere. Magari con qualche osservazione di tipo scientifico, per chiarire alcune delle dichiarazioni dell’intervistato; e anche con qualche riflessione sulle suggestioni che ne muovono sulle sue (gravi anche se involontarie) implicazioni.

Spicca il riferimento alla spontaneità con cui gli imprenditori si rivolgerebbero ad un boss della criminalità organizzata per ricevere protezione o offrire appalti. Certo, esistono anche imprenditori che ammiccano alla mafia vedendo, o credendo di vedere (la mafia non fa mai nulla gratis), in tali rapporti, l’opportunità di affari e profitti in una convergenza di interessi. Tuttavia, come insegna il sociologo Rocco Sciarrone, bisogna distinguere differenti tipologie di imprenditori declinate sulla base di una valutazione quanti/qualitativa del grado di coinvolgimento dell’imprenditore con l’ambiente mafioso. E’ un fatto che com’è vero che esistono imprenditori collusi o addirittura mafiosi, altrettanto vero è che ad una certa fetta dell’imprenditoria, specialmente piccola e media, la protezione viene offerta o, per meglio dire, imposta dal boss che controlla la zona.

Il meccanismo collaudato è il seguente: il clan individua la vittima e comincia a minacciarla in un crescendo di azioni finalizzate a spaventare sia l’imprenditore che i suoi cari; progressivamente, le minacce aumentano d’intensità: scattano i primi avvertimenti, le prime ritorsioni. Forse salterà una gru o un capannone prenderà fuoco. A questo punto, ossia dopo aver creato il problema, il boss si rivolge all’imprenditore offrendogli protezione da quelle violenze da lui stesso perpetrate: in pratica propone la soluzione, in un pericoloso incrocio di domanda e offerta. Oppure sarà l’imprenditore stesso a rivolgersi al boss locale, di cui la fama è nota, in cambio di una “vita tranquilla” e della possibilità di portare avanti la propria attività rassegnandosi ad inserire il pizzo tra i costi strutturali della sua impresa. Rispetto agli appalti la questione è analoga ed anche più complessa. Offrire un appalto alla mafia può costituire il tragico epilogo per un imprenditore pesantemente vessato. L’alternativa potrebbe essere quella di cercare altri segmenti di mercato, in altri territori, con costi talvolta insostenibili.

Un secondo spunto di riflessione nasce a seguito del tentativo, niente affatto velato, di sminuire la portata del fenomeno mafioso al Nord. «Limitiamoci alle infiltrazioni» dice Giacobbe. Ma l’obiettivo primo per la mafia, e in particolare per la ‘ndrangheta, è proprio il controllo del territorio anche a scapito del profitto. La ‘ndrangheta si è diffusa nel Nord attraverso la strategia della colonizzazione che ha portato ad una presenza ramificata e capillare di cellule, poi divenute vere e proprie colonie di ‘ndrangheta, in molte aree del Paese e fuori dal Paese.

«Non rubano ai poveri i grandi boss», ci vuol far credere Giacobbe. Ma non spiega che l’estorsione, il pizzo, la protezione sono metodi che hanno come finalità prima il controllo del territorio e solo a seguire il profitto.

Vogliamo aggiungere una riflessione sull’opportunità e sulle suggestioni di questo articolo. A partire dal titolo, con il riferimento al Padrino, l’impressione è che tutta l’intervista, volente o nolente, strizzi l’occhio allo stereotipo, al luogo comune. La presentazione confezionata per il boss –«in casa sua fu trovato un vero arsenale» – alimenta il mito dell’eroe onnipotente, nonostante la sentenza di condanna che, anzi, sembra indossata come una medaglia al valore, un riconoscimento di prestigio. E’ pericolosa la fascinazione esercitabile da una simile figura, specialmente in tempi in cui un’aggressiva precarietà, materiale ed esistenziale, rischia di rinvigorire la presa di un principio tipicamente mafioso: la ricerca della via più breve al massimo risultato con il minimo sforzo.

Tanto mafiose sono le risposte del boss, quanto pressappochiste le domande della giornalista. Al primo fa comodo una pagina di giornale in cui gloriarsi dei suoi pregi di “uomo d’onore”, e alla seconda interessi lo scoop, la notizia ad ogni costo. Sembra di leggere un’intervista a una star chiamata a giustificare pubblicamente le bravate del figlio scapestrato a cui, insomma, “è giovane e gli si perdona tutto”… Non è difficile immaginarsi il ghigno fiero di Salvatore Giacobbe, giacca cravatta e niente coppola in testa, mentre risponde alle domande. E poi, davanti ad un’asserzione della portata di «non si sputa nel piatto dove si mangia», tradotto: “sono orgogliosamente un mafioso”, perché la giornalista sceglie di dare a Giacobbe un’altra occasione di celebrità ricordando che è stato citato in un libro?
Sarebbe sufficiente agire con un po’ più di scrupolo, porre a se stessi qualche interrogativo in più e già la mafia farebbe i conti con un altro giornalismo.

 

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