venerdì, Novembre 22, 2024
Inchieste

Mafia e colletti bianchi nella Sicilia “babba”

“A Messina la mafia non esiste, a Messina è tutto tranquillo, a Mes­sina non succede mai niente…”

Messina è stata sempre definita città “babba”. Questo perché, nel piano di controllo del territorio da parte di Cosa Nostra, la provincia peloritana doveva restare tranquilla, nell’ombra.

Perché è proprio lontano dai riflettori che è possibile agire indisturbati e dare piena attuazione al disegno criminale. Dalla gestione e controllo dei grandi ap­palti pubblici (autostrada Messina-Paler­mo, doppio binario della ferro­via) al busi­ness delle discariche e dello smalti­mento dei rifiuti. Appalti, li­cenze edilizie, aree edificabili, controllo dell’acqua. Cioè ag­ganci con la politica, con l’economia e con pezzi delle istituzio­ni.

«La mafia oggi i soldi – spiega il pm Roberto Scarpinato – li fa con la testa e non coi muscoli». Una testa che arruola schiere di “uomini-cerniera” che entrano in ogni ufficio pubblico e privato.

Medici, architetti, ingegneri, avvocati, commercia­listi, banchieri, funzionari e uomini delle istituzioni sono stati ingloba­ti nel sistema di potere che ruota attorno ai clan, fino a renderli parte integrante del tessuto crimi­nale.

Colletti bianchi a disposizione di Cosa Nostra. Come – alla luce delle ultime in­dagini della Direzione distrettuale antima­fia – l’ex capo dell’ufficio tecnico di Maz­zarrà Sant’Andrea, il geometra Roberto Ravidà, uno dei principali artefici della realizzazione dell’unica e più grande di­scarica di rifiuti del messinese, quella di Mazzarrà Sant’Andrea.

Era stato lui a presiedere la commissio­ne aggiudicatrice dell’appalto per la sua costruzione. Lui a scegliere la ditta “vin­citrice”, riconducibile a un degli esponen­te della cosca locale. Lui a smistare le procedure per il rilascio, da parte della Regione, delle autorizzazioni ambientali necessarie per l’esercizio e l’ampliamento.

Fin dal 2000 il geometra Roberto Ravi­dà s’era legato a filo doppio al “gotha” della mafia messinese, di cui era il refe­rente per l’aggiudicazione degli appalti pubblici. Avrebbe anche fatto da tramite tra la cosca e le imprese per la riscossione di estorsioni e tangenti, indicando di volta in volta quali imprese taglieggiare o avvi­cinare.

Quando il ministro Lunardi diceva che «con la mafia bisogna convivere» peccava di minimalismo. Stato e mafia hanno con­vissuto sempre. Dalla borghesia mafiosa (che però non faceva entrare i boss nel sa­lotto buono) post-unitaria alla zona grigia di corruzione e affari degli anni Settanta, fino alle grandi stragi corleonesi. Oggi la situazione è peggiorata, perché dalla con­vivenza siamo passati alla connivenza, dall’omertà alla complicità e all’alleanza.

Il modello mafioso ormai è condiviso da settori sempre più vasti della società. E le cosche hanno imparato a calibrare l’uso della violenza (che rimane decisiva) per mantenere il controllo del territorio. Spes­so non hanno bisogno di minacciare, e ge­stiscono invece servizi e competitivi: “of­ferte che non si possono rifiutare”, in gra­do di trasformare gli imprenditori da vitti­me delle estorsioni in entusiasti clienti e complici. Banchieri, commercialisti, e manager spesso accettano di lavorare per loro non per bisogno economico nè per minacce.

Dall’edilizia al commercio, dal Ponte sullo Stretto al sacco della sanità pubblica, questo tipo di “imprenditori” domina ormai il terreno degli appalti pubblici siciliani. Con le conseguenze intuibili per le residue isole di economia legale.

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