lunedì, Novembre 25, 2024
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Il paese perduto

Diario di una vita anti­mafia

L’urlo della storia squarciò il vuoto in cui eravamo sprofondati. Sembrava il coro di una tragedia greca, un coro fatto dagli onesti che in quel preciso istante, senza conoscersi, dai punti più disparati della Nazione, emettevano il loro urlo di dolore mentre le terribili immagini dell’asfalto saltato in aria, di quell’orren­do vulcano di catrame, dei brandelli di Giovanni e di Francesca e degli agenti della scorta, scor­revano alla tivù e il regi­me ci imboniva con i suoi programmi di evasione.

Tutto si rivelò chiaro in quell’abbaglian­te giornata di primavera del Millenovecen­tonovantadue, mentre un sole caldo inon­dava questa Sicilia am­morbata e mi con­fermò che se volevamo salvare questo Paese dovevamo esporci, anche a costo di rimetterci la pel­le. Fu quel tremendo urlo a svelare una sempli­ce verità che l’indiffe­renza, il cini­smo e la complicità di tanti avevano na­scosto.

Ci eravamo illusi di stare in un sistema democratico ma in realtà vivevamo in un regime in cui la corruzione era diventata l’essenza della nostra esistenza.

Fino a quando una cosa del genere dura quattro, cinque anni è estirpabile, ma quando si perpetua per almeno vent’anni, si cristallizza nelle teste di tanti ed è im­possibile sradicarla.

Ogni volta che questo Paese ha cercato di voltar pagina, ogni volta che ha cercat­o di darsi una svolta democratica, un botto ha squarciato i tentativi di cambia­mento e tutto è tornato come prima, piaz­za Fonta­na, Brescia, l’Italicus, Bologna, dalla Chie­sa, Chinnici, La Torre, Moro, Matta­rella, e ora Falcone, un sottile filo ha sempre ac­comunato stragi politi­che e stra­gi mafiose. Ma stavolta era di­verso. Sta­volta la collera degli onesti, gli urli stra­ziati e strazianti della vedova Schifani e degli altri familiari e della gente comune che durante i funera­li inveiva contro i poli­tici, squarciavano il silenzio della cattedra­le.

Stavolta era diverso perché avevano lan­ciato pure le monetine a Craxi davanti all’hotel Raphael.

E c’era questa collera, questo urlo disper­ato degli onesti che reclamavano ve­rità e giustizia. Ricordo le manifestazioni per commemorare Falcone, la sala strapie­na di gente, e poi giugno e luglio, il lutto che piano piano ci scivola addosso fino ad asciugarsi.

Una giornata di mare con gli amici, io che faccio i soliti discorsi intrisi di rabbia e di indignazione, e qualcuno che mostra la solita insofferenza, Sem­pre-sti-discorsi-di-mafia-e-di-politica, e io che voglio gri­dare, voglio scappare, voglio piangere, ma alla fine stringo i denti, ri­caccio le lacrime e faccio finta di vivere perché alla fine tut­to si riduce in questa assurda finzione im­posta dal fatto che devi vivere.

E-allora-ce-lo-facciamo-questo-bagno? In fondo il problema di questo Paese non è solo il fatto che saltano in aria i magi­strati, è questa lotta sorda, furibonda e selvaggia contro la stupidità e l’opportu­nismo degli uomini. Il problema è che dobbiamo ade­guarci perché siamo infini­tamente di meno. E allora facciamolo questo fottutis­simo bagno e scherziamo, e poi un altro bagno e poi un’altra battu­ta, e poi faccia­mole quelle interminabili discussioni su crociere, alberghi con pi­scina, villaggi tu­ristici dove si mangia di tutto e quando torneremo alla vita di ogni giorno sarà la stessa cosa, una eterna giornata di discorsi vuoti e di risate… Dobbiamo rimuovere in fretta. Dobbia­mo vivere, anche se attorno a noi si av­verte il ghigno malefico della morte. Dobbiamo far finta di niente.

Adesso siamo sulla via del ritorno in questa afosa giornata di luglio, a due mesi dalla strage di Capaci. C’è una cal­ca inde­scrivibile in autostrada, in mac­china non c’è l’aria condizionata e si suda, io nel frattempo ho assorbito il col­po della matti­na, o forse mi illudo che tutto sia passato, vivo con un costante magone e con un groppo in gola e faccio finta di adeguarmi ai discorsi della gente dabbene.

In fondo abbiamo elaborato il lutto e ora possiamo permetterci di parlare del nulla, ascoltare musica mentre cammi­niamo a tre all’ora per quei maledetti la­vori in corso.

Improvvisamente dall’altra macchina ar­riva ansimando un amico: “Hanno ammaz­zato Borsellino”. Risento quell’urlo, que­sta volta più vee­mente. Ormai in questo Paese le pa­role non bastano più, ci vuole il botto per far capire alla gente perbene che tutto sta andando in malora. Sulla macchi­na cala un silenzio di tomba, non si parla più di nien­te, non si ride più di niente, si spe­gne lo stereo e si fa ritorno a casa.

Accendo la televisione, Palermo sem­bra Beirut, i palazzi sventrati e le mac­chine di­velte, i vigili del fuoco che cerca­no di spe­gnere gli incendi e tanta gente che giron­zola in via D’Amelio e forse in quel mo­mento la telecamera inquadra il tizio che sale sulla macchina di Borselli­no per pre­levare l’agenda rossa, ma noi vediamo solo persone che gironzolano in questa strada anonima circondata solo da palaz­zoni costruiti negli anni Sessanta.

E poi risenti quell’inconfondibile urlo che sembra uscir fuori dal quadro di Mun­ch, questo simbolo dell’angoscia e dello smarrimento umano che vedo senza vede­re, e sento senza sentire, e a un certo punto ricordo per filo e per segno le pa­role del pittore norvegese e lo stato d’animo stra­ziante che è lo stesso che provo io adesso, quando descrive le sen­sazioni dell’Urlo: “Camminavo lungo la strada con due ami­ci quando il sole tra­montò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue…”.

La giornata non è ancora finita. Qual­che ora e cala la sera. Ormai tutto il mon­do sa che hanno fatto a pezzi Borsellino e i suoi agenti della scorta. A un certo punto, da lontano, sento un coro di clac­son, mi af­faccio e vedo delle macchine che si avvici­nano, e quel coro che diven­ta sempre più assordante. Le auto si fer­mano in piazza, scendono una quarantina di giovinastri, stappano le bottiglie di spumante e intona­no dei cori da stadio, saltano, urlano, in­neggiano alla loro squadra di calcio che oggi ha vinto il campionato, una danza tri­bale macabra, senza fine.

 

“Il paese perduto” di Luciano Mirone, di pros­sima pubbli­cazione, racconta la muta­zione italia­na attraver­so sto­rie di gente comun­e

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