Kalashnikov
Sul palco c’erano Gian Carlo Caselli e Alfonso Sabella, suo pupillo ai tempi eroici della procura di Palermo dopo le stragi. Ambiente: aperta campagna, terreno sequestrato alla camorra, il campo dei giovani di Libera a Borgo Sabotino. Hanno detto cose importanti tutti e due. Ma qui riporto a memoria un episodio raccontato da Sabella, perché mi ha sgomentato.
Nel ’96 siamo entrati, ha detto il magistrato, nel più grande arsenale mai trovato a organizzazione mafiosa. A San Giuseppe Jato. C’erano decine di lanciamissili e lanciagranate, batterie di bombe a mano, centinaia di kalashnikov….
Ecco, fermiamoci qua. Centinaia di kalashnikov. Roba da guerra civile, non da gruppi di fuoco che fanno agguati o assassinano uno per uno i loro nemici. Sono questi i “dettagli” su cui riflettere. Primo, perché un ritrovamento così dovrebbe restare scritto a caratteri cubitali nella nostra memoria, insieme alle decine e decine di latitanti che, proprio sotto la guida di Caselli e Sabella, vennero catturati negli anni novanta. Mentre se va bene ci ricordiamo del lavoro di quella procura per il processo Andreotti.
Secondo, perché abbiamo qui la misura delle dimensioni del nemico, altro che quattro straccioni comandati dall’alto come ogni tanto si sente ancora dire (ahimé, quando la finiremo?). Un esercito abbiamo davanti, non di meno. E ogni volta che sentiamo parlare di affiliati a questa o quell’organizzazione mafiosa dovremmo riandare subito a queste promesse di apocalisse. Che l’affiliato sia un architetto, un politico o un dirigente di Asl.
Ma non basta. Quell’arsenale venne trovato. Quanti ce ne sono ancora in giro, di Cosa nostra o della ‘ndrangheta o della camorra? E chi minacciano? A che scopo vengono allestiti e mantenuti?
Ad apprendere o sentirsi riproporre queste notizie ci si ritrova a interrogarsi smarriti una volta di più sulla precarietà della nostra democrazia. E sull’allegria (o anche il romanticismo impegnato) con cui affrontiamo questa materia. Ecco, è il caso di cambiare registro.