Lettera di una madre
“Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera, quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forma essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo si fa carico anche di vite umane.
Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali; ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o calcolo delle verità, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato mai capace di combattere”.
Giuseppe Fava, 11 ottobre 1981
* * *
Qualche settimana fa arriva in redazione una lettera. Ci invita a interessarci di una storia che coinvolge tre donne e un uomo. Che è padre e marito. Una storia di violenza, sopraffazione, abusi e ingiustizia. Una storia, come troppe ne esistono, che collega le amicizie eccellenti all’impunità. Una storia di appartenenti a sette religiose e influenti cerchi magici che riescono, negli uffici di polizia e nelle stanze del Tribunale, a ottenere trattamenti di favore, grazie anche alle laute parcelle pagate a bravissimi avvocati. Una storia di donne sole che decidono di smettere di subire in silenzio.
Ma non siamo giudici, non siamo poliziotti. Tutt’al più, a volte, raffazzonati investigatori. Ma null’altro. Non abbiamo che le nostre penne, le nostre tastiere e i nostri corpi. Che fare dunque?
* * *
“Sono una madre disperata e mi rivolgo a voi perché spero possate aiutarmi con il caso che coinvolge mia figlia”. Sono le prime parole della lettera.
Poi ci sono nomi, date, udienze, fatti. I nomi li abbiamo controllati ad uno ad uno, tentando di capire se esistessero veramente, se ci fosse una corrispondenza con la realtà. Tutte persone esistenti, tutte relazioni probabili. Poi ci sono i fatti, raccontati in molte denunce a disposizione dell’autorità giudiziaria. Su questi non abbiamo altra possibilità che sentire le voci, che abbiamo sentito, dal vivo, in presenza. Credibili, per noi. Abusi psicologici del padre ai danni della figlia, violenze nei confronti della moglie. Tutti denunciati all’autorità.
* * *
Dell’etica del giornalista scriveva Giuseppe Fava. Dell’ingombrante onere di raccontare scomode, invadenti, compromettenti, fuori dalla ritualità della politica, della velina per la stampa, della congettura sulle elezioni. Qui siamo. A raccontare una storia di una donna, apparentemente anonima. Ma che anonima non è. Neuropsichiatri, giudici, funzionari del Tribunale per i Minorenni, avvocati, poliziotti a Catania conoscono nomi, cognomi, indirizzi, numeri di telefono di ogni persona coinvolta.
Se vorranno agire per mettere fine alle sofferenze, potranno. Negli ultimi anni un grande movimento di donne è sceso in piazza per fare rumore. Tante volte, per strada, al megafono, donne hanno trovato il coraggio di denunciare violenze, umiliazioni, sopraffazioni subite da uomini impuniti, protetti, sottovalutati. In coro, tutte quante, in corteo, rispondevano a quelle parole, urlando: Sorella io ti credo, sorella io ti credo, sorella io ti credo