“C’è un altro mondo, fatto di cose belle…”
Vent’anni… due decenni, dalla tragica scomparsa di Rita Atria. Nel ’92 a Palermo su uno striscione c’era scritto: “Non li avete uccisi, le loro idee cammineranno sulle nostre gambe”. Allora si può partire banalmente da una domanda: “le loro idee hanno camminato sulle nostre gambe”?
Rita Atria è la settima vittima della strage di via D’Amelio; una vittima uccisa per effetto di quella strage e che spesso viene ricordata come una morte per “disperazione”, per “solitudine”. Certo, Rita era disperata ed era sola ma perché era disperata? E chi l’aveva lasciata da sola?
Era disperata perché avevano ucciso il suo giudice e quindi la speranza di rimanere in vita; chi l’aveva lasciata sola?
La sua famiglia (sua madre e sua sorella); il suo paese, Partanna; lo Stato. Troppo comodo annoverare Rita Atria tra le vittime di mafia. No, Rita è vittima di mafia ma è anche vittima di quel sistema su cui la mafia poggia i suoi pilastri; Rita è vittima di una società che giudica e accusa chi testimonia. “Poverina parlava per sentito dire”, “poverina si uccisa per disperazione”, “poverina aveva solo 17 anni”. Una pietà stracolma di ipocrisia, una pietà senza religione.
La tomba di Rita Atria non ha ancora un nome e a Partanna la cosa si giustifica semplicemente dicendo che “è usanza del Paese seppellire i morti senza nome”; verissimo. Molti morti non hanno il nome… ma quello di don Vito, il padre di Rita, la signora Atria lo ha messo sulla tomba. Giovanna Cannova Atria madre di Rita, una donna che non ha mai trasformato il suo dolore in sentimento di riscatto, il cui rancore le ha fatto distruggere la lapide della figlia quando era ancora seppellita con il figlio Nicola.
Non ha distrutto quella lapide per fare un torto alla figlia, ha distrutto quella lapide perché a scegliere il luogo della tumulazione non era stata lei; ha distrutto quella lapide perché la fotografia e la frase che ricordava sua figlia non l’aveva scelta lei.
Giovanna Cannova c’era al funerale postumo del 1997 (perché nel ’92 pare non ci fossero le condizioni per un funerale normale ma solo per una benedizione veloce) organizzato dalle associazioni (“Rita Atria”, Libera, l’Arci, etc…), seduta nella navata laterale della chiesa quasi a voler sottolineare che lei era lì per sua figlia ma non stava con noi.
Non ho mai capito cosa ha spinto la mamma di Rita ad andare verso il giudice Caponnetto, alla fine della messa, per abbracciarlo quindi precipitare in un pianto a dirotto. Forse non siamo noi a dover dare una risposta a tutto questo.
Venti anni senza un nome sulla tomba e con un paese che difficilmente ricorda Rita perché forse è il simbolo di una rottura con la cultura mafiosa che impone il silenzio, la complicità e la connivenza. Rita per molti ha solo diffamato Partanna.
Ma Rita viveva in quel paese e sapeva benissimo che “l’unico sistema per eliminare la mafia è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.”.
Rita ci ha tracciato la strada non solo per lottare contro la mafia ma ci ha detto che lei, figlia e sorella di mafiosi, quando ha conosciuto un’altra realtà ha deciso con forza da che parte stare. Schierarsi senza se e senza ma, senza cerchiobbottismi, senza compromessi che mortificano l’esistenza.
Rita era una ragazza come tante, voleva vivere, voleva amare, voleva giocare, voleva andare al mare, voleva tornare a Partanna. Non è stata solo la mafia ad impedire tutto questo. Le complicità sociali e politiche sono corresponsabili di quel volo dal settimo piano di viale Amelia a Roma.
Per vent’anni abbiamo cercato di organizzare iniziative nelle scuole, attività sul paese in nome di Rita ma forse, era sembrato una forzatura, la scelta di chi fonda una associazione dedicata a Rita Atria a milazzo, a più di 300 km di distanza. Senza vivere il territorio.
Da qualche anno abbiamo deciso di non tornare più a Partanna perché siamo rimasti in attesa di un segnale, di nuove energie che non avessero paura di citare quel nome, di ricordarne la storia senza chiamarla “poverina” ma di valutare le sue denunce, di rileggerle almeno in chiave politica visto che gli aspetti giudiziari sono stati definiti in un modo o nell’altro.