lunedì, Novembre 25, 2024
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“Al lavoro e alla lotta” Il coraggio degli edili Cgil

Priorità sicurezza, ambiente e lotta alla mafia, come non succedeva da tempo.

Ci fu un tempo a Catania, era quello dei vecchi cavalieri, ma anche dei nuovi, nel quale l’opposizione non esisteva. Solo affari e signorsì. I partiti e le istituzioni inauguravano le concessionarie d’auto di Nitto Santapaola, i sindacati applaudivano agli appalti truccati e insieme si acconsentiva al saccheggio della città. In compiacente silenzio.

Tante cose sono cambiate. Non tutte, non abbastanza. Ma è necessario segnalare i passi in avanti e gli atti di coraggio. Questa mattina i lavoratori edili della CGIL, la categoria è la FILLEA, si sono riuniti in congresso. Il Segretario Vincenzo Cubito ha presentato la sua relazione. Al centro la sicurezza sul lavoro, la denuncia delle irregolarità, la questione ambientale e del cambiamento climatico, la lotta alla mafia, la centralità dei beni confiscati e del loro riuso sociale nel contrasto alla criminalità organizzata.

Riportiamo l’intervento integrale. Perché ne resti traccia in questa città, perché si sappia che c’è chi resiste e chi dà battaglia.

 

Care compagne e cari compagni, è un onore per me aprire i lavori per il congresso provinciale della Fillea di Catania. Prima, però, di affrontare in concreto il nocciolo delle proposte e delle battaglie che questa organizzazione conduce ad ogni suo livello giornalmente, mi preme esprimere tutta la dovuta preoccupazione per il complesso quadro geopolitico deflagrato negli ultimi mesi, ma che conserva radici che solcano gli ultimi decenni.

L’invasione dell’Ucraina per mano della Russia e l’allargamento dei confini Nato portano in sé un pericoloso messaggio, ovvero il ritorno anche nel cuore dell’Europa di un modello di pensiero che ritiene del tutto naturale l’utilizzo delle armi e dei corpi militari quale strumento utile, se non addirittura necessario, alla ricomposizione delle controversie tra stati.

Mai frase fu tanto banale quanto lampante nella sua veridicità intrinseca: le guerre sono pensate dai ricchi e vengono pagate dai poveri, in termini di vite umane e di compressione dei margini di spesa le cui ovvie conseguenze sono una inflazione galoppante e una povertà sempre più diffusa e trasversale.

Corsi e ricorsi storici che pongono al centro di ogni lotta gli interessi economici in una condizione di indiscussa preminenza sull’uomo. Si fa presto a metter da parte la soggettività della persona, scompare l’antropocentrismo che non ha più spazio nei ragionamenti politici.

Un trend plasticamente rappresentato anche dai mondiali di calcio in corso in Qatar:

Basti pensare che la FIFA ha vietato ai capitani delle nazionali partecipanti al torneo persino di indossare le fasce con il simbolo dell’arcobaleno che richiama la difesa dei diritti umani, per non urtare la “suscettibilità”, se così vogliamo chiamarla con un eufemismo, dell’emiro del Qatar.

Il paradosso è mortificante: l’evento calcistico più costoso al mondo è celebrato in un paese che non solo disdegna i più elementari diritti civili e sociali, ma che ha causato la morte di circa 6500 lavoratori durante la costruzione degli impianti sportivi che oggi si è trasformata nella passerella dei più grandi calciatori, dei più ricchi sceicchi e delle più belle donne. Mi chiedo come faremo a lavare via dalle nostre coscienze una macchia così grande che puzza di morte.

Viviamo una società malata, che insegue meri interessi economici e che sembra aver perso ogni barlume di empatia per il prossimo.

Stiamo attraversando un periodo storico incentrato sulla paura, in cui l’individualismo è l’aspetto maggiormente caratterizzante.

Ad aggravare questo scenario già triste si somma la perdita di credibilità delle istituzioni, ne è riprova il livello di astensionismo alle urne dell’ultima tornata elettorale che rischia di far barcollare il sistema democratico repubblicano così come oggi lo conosciamo.

La nostra coscienza ci impone cogenti riflessioni, non rimandabili, non più destinate a rimanere nell’etere.

In questo sfaldamento dei legami tra donne e uomini, in questo spazio lasciato colpevolmente libero da una politica sorda potrebbero annidarsi i germi di un passato che pensavamo aver sconfitto per sempre.

Questi sono i fardelli che la nostra organizzazione dovrà caricarsi sulle spalle con la consapevolezza che dinnanzi all’arretramento degli spazi di concertazione e contrattazione tocca anche a noi ricostruire un campo largo ove far rifiorire la vera essenza della democrazia partecipata nella consapevolezza che oggi non è più possibile demandare ad altri.

Difesa della democrazia e dei diritti diffusi dentro e fuori i perimetri del cantiere, questa è la Fillea.

Una categoria storica che ha lasciato un segno indelebile anche in questa città e che mi onoro di guidare da quasi due anni.

Ripercorro le settimane trascorse insieme, pancia a terra, lì dove più serve: nei luoghi del lavoro, ammetto di non potermi e volermi sottrarre ad una sana e sincera emozione con la forza di chi deve anche guardare avanti perché la storia di questa organizzazione è fatta di lotta, proteste, ma anche di proposte e programmazione.

Sono stati anni intensi soprattutto perché provenienti da un periodo ancor più complicato. Il Mondo dell’edilizia immerso per quasi un decennio in una spirale negativa dai risvolti tragici sembra oggi vivere una nuova giovinezza.

Nonostante le tante storture già rilevate non possiamo che valutare positivamente alcuni effetti delle normative che sono nate attorno al bonus 110%.

L’intero settore è stato rivitalizzato e ce lo documenta l’aumento di circa il 30% della massa salariare certificata in cassa edile.

Le criticità sono, indubbiamente, molteplici, per dirne qualcuna: il galoppante costante e attuale innalzamento dei prezzi delle materie prime iniziato ben prima dello scoppio della guerra sta destrutturando dall’interno un settore che sembra rialzarsi dopo tanta fatica.

Incute altrettanta paura la notizia relativa alle difficoltà degli istituti creditizi di non poter o voler onorare i crediti d’imposta vantati dalle imprese mettendo in serissima difficoltà 33 mila imprese con la consequenziale possibile perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro in tutta Italia.

Non bisogna, infatti, dimenticare che il benessere economico incide direttamente e proporzionalmente sui diritti in un mondo capitalista quale è il nostro.

Non è un caso che la crescita delle unità lavorative e della massa salariale hanno profuso effetti positivi anche in tali ambiti:

  • Aumenta la domanda di lavoro, sebbene con una nota dolente: dopo un decennio di situazione stagnante le imprese sperimentano la difficoltà di assumere personale specializzato;

  • i lavoratori costretti fino a ieri a sottostare a modelli produttivi terrificanti possono oggi iniziare a scegliere dove esercitare la propria professione liberi da quel cappio alla gola chiamato bisogno.

Il quadro economico- imprenditoriale si innesta all’interno di una cornice più ampia che vede anche nell’asset normativi uno dei suoi attori trainanti:

Ormai da un anno, infatti, è entrato in vigore il DURC di congruità, uno strumento strategico che porta con sé una finalità precisa: contrastare e arginare il fenomeno del lavoro irregolare in edilizia attraverso le Casse edili il cui compito è quello di verificare la congruità dell’incidenza della manodopera impiegata nella realizzazione di gran parte dei lavori edili, nello specifico di tutti i lavori pubblici e di quelli privati sopra i 70 mila euro.

E questo lasciatemelo dire è una grandissima conquista della Fillea CGIL tutta.

Tocca adesso a noi dopo un iniziale periodo di fisiologico assestamento pretendere che tutti gli enti preposti implementino fattivamente e tassativamente quanto disposto nella norma.

Sempre dal primo novembre 2021 sono divenute operative anche le nuove disposizioni sul sub-appalto, previste dal decreto semplificazioni che riconoscono parità di tutele economiche e normative, nonché l’applicazione dello stesso Ccnl ai lavoratori dell’appaltatore e a quelli del sub appaltatore, qualificando ulteriormente imprese e settore limitando in tal modo il dumping contrattuale, quando però non siamo in grado di farci clamorosi autogoal, per rimanere in tema calcistico.

Ho parlato del 110% e dell’importante impronta data alla rinascita del settore nella speranza che il quadro normativo possa esser migliorato e non smantellato dal nuovo governo, nella consapevolezza diffusa che invero buona parte delle misure introdotte andrebbero mantenute magari circoscrivendo il raggio di azione alle fasce più deboli e all’edilizia pubblica dai connotati sociali.

La partita in gioco è fondamentale, la finestra temporale sempre più ristretta per usufruire dei vari bonus previsti e il decennio di morìa del settore che nei fatti ha sottratto tantissimo personale qualificato anche in tema di sicurezza sono due degli scogli contro cui la nostra nave non deve arenarsi.

Ma a far le spese di questa situazione non possono certo esser i lavoratori.

Anche per questo nei mesi scorsi a Catania abbiamo lanciato un’iniziativa intitolata “oltre le facciate” che sta portando i nostri funzionari e lavoratori più vicini ad effettuare una massiccia campagna di sensibilizzazione con maggior vigore nei cantieri. L’asse centrale di “oltre le facciate “è il tema della sicurezza, siamo fortemente convinti che si debba vivere con dignità di questo lavoro senza la paura di poterci morire.

Il mio non vuole essere un mero decantare belle iniziative, il mio e il nostro è un lavoro concreto che si basa su numeri. Quelli non mentono mai: in Sicilia ad ottobre si sono infortunati 28277 lavoratori a fronte dei 19264 nello stesso periodo del 2021.

Di questi ben 22779 sono riferiti al mega settore servizi e industria.

La crescita così significativa di infortuni è in parte dovuta ovviamente al netto aumento della produttività del settore edile.

La provincia più colpita è Palermo, con 6790 infortuni denunciati, seguono Catania con 6531 infortuni e Messina con 5057 infortuni. È chiaro come il tutto sia proporzionato al numero degli abitanti per provincia.

Sempre da gennaio ad ottobre in Sicilia ci sono Stati 52 morti sul lavoro

Di questi ben 37 sono del settore industria e servizi.

Dei 52 complessivi ad ottobre ben 18 si sono verificati nella provincia di Catania e 11 a Palermo.

A questi dati andrebbe agganciato tutto il lavoro sommerso che nei fatti sfugge ad ogni azione di controllo e monitoraggio.

Purtroppo, in provincia di Catania, il netto sottodimensionamento degli ispettori del Lavoro non permette di assolvere nel migliore dei modi all’importantissima funzione loro attribuita.

In via informale sappiamo che gli ispettori a Catania addetti al servizio sono solo in 8 e nell’attesa che le norme che ne prevedono l’aumento diano frutti concreti ci ritroviamo a non poter coprire il territorio.

Per fornire un dato che esprime nella sua brutalità la condizione di difficoltà basterebbe pensare che attualmente a Catania nel solo settore edile, sono attive oltre 2000 imprese e ben 12000 operai distribuiti nei 3700 cantieri.

Bisogna attuare una vera rivoluzione culturale.

È necessario che le imprese e le stazioni appaltanti capiscano che la sicurezza non è un costo, ma un investimento perché la cronistoria delle morti bianche ha assunto i tratti di un vero bollettino di guerra.

E noi Viviamo questa guerra sulla nostra pelle, così come viviamo sulle nostre carni la tragedia che ha scombussolato la nostra intera comunità solo 12 mesi fa.

Vi introduco a un nuovo tema che altro non è che l’ennesima faccia di una medaglia che descrive le enormi difficoltà della terra in cui viviamo.

Il 26 ottobre 2021, è precipitata sulla nostra area metropolitana la quantità di acqua che solitamente si abbatte in un intero semestre.

Guai, però a parlare di catastrofe improvvisa:

il cambiamento climatico e la tropicalizzazione dello stesso, sono argomenti ben noti a tutti, salvo che forse ai capi del mondo che continuano ad enunciare le migliori intenzioni trasformandole poi nei fatti nei bla bla bla a cui ormai siamo tristemente abituati.

Certo, evidenti sono le nostre responsabilità dirette per l’uso sconsiderato fatto soprattutto negli ultimi decenni delle risorse naturali e, più in generale, del sistema pianeta.

Responsabilità pari solo a quelle relative alla mancanza di programmazione delle misure di intervento pubblico, che da una parte dovrebbero invertire il trend e dall’altra porre le condizioni per non far pagare lo scotto ai cittadini già in ginocchio.

Alle immissioni spropositate di ogni sorta di sostanza, si aggiunge la edificazione selvaggia anche in aree fondamentali per la tenuta del nostro ecosistema, una tra tutte la cintura metropolitana di Catania, che non a caso, è la più cementificata della Sicilia .

7 milioni e mezzo di metri cubi dal 2003 in poi, secondo il ministero dell’Ambiente, con un consumo di suolo che avanza inesorabilmente e che vede proprio nel Catanese l’epicentro del disastro.

Ogni bambino che nasce porta in dote 135 metri quadrati di cemento.

Gran parte della nostra provincia, è in cima alle classifiche di cementificazione, e c’è un dato che salta all’occhio: il secondo comune con la più grande percentuale di suolo occupata nell’Isola è proprio Gravina di Catania, dove quel martedì di un anno fa morì Paolo Grassidonio e dove il 50,3 per cento del territorio, più di un metro ogni due, è coperto da edifici,

Dati questi che invocano giustizia, prima sapevamo convivere con l’acqua, poi ha prevalso un modello ingegneristico che prevede un’impossibile irrigimentazione dell’acqua. Adesso bisogna pensare a un nuovo modello di città: non in espansione, ma più densa”.

La fuga da Catania verso le città e i paesi limitrofi, “l’arrampicarsi” sempre più verso il vulcano non hanno fatto altro che stravolgere l’equilibrio del territorio e quindi il flusso di acqua che si riversa verso il capoluogo è ingente, senza dimenticare il “sacco di Catania” degli anni ‘60 Con palazzoni costruiti ovunque a sbarrare lo sbocco a mare, spesso, privi perfino di sistemi fognari, trasformando nei fatti Catania in una città soggetta a continue inondazioni, uno schema che deriva dal passato ma che risulta ancora estremamente attuale,

basti pensare alla nuova cittadella giudiziaria che sta nascendo proprio in uno spazio fronte mare sottratto al cemento e che invece avrebbe potuto riportare il senso e la presenza delle istituzioni in uno dei tanti quartieri periferici della città.

Per porre la lente d’ingrandimento su questi aspetti proprio un anno fa ci siamo resi protagonisti dell’organizzazione di un’iniziativa che abbinava alla parte politica il punto di vista dei tecnici del settore in cui sono emerse alcune evidenti discrasie tra quanto progettato, quanto costruito e quanto davvero utile per la città

Partendo dalla vicenda che ruota attorno al collettore B mai completato ma per cui risultano esser stati stanziati circa 58milioni di euro.

Sottolineando Il fatto che il torrente Cubba -via idrica fondamentale per l’implementazione dell’organico progetto di gronda- passa dai terreni acquistati per la realizzazione del Centro Sicilia : l’ennesima colata di cemento inutile per un’ Area Metropolitana che vanta ben 13 centri commerciali.

Oltretutto, proprio nell’area suddetta, dovrebbero esser espropriati dei terreni al fine di portare al termine il progetto originario.

Meritevoli di adeguati approfondimenti e puntuali risposte da parte delle autorità competenti erano e sono anche le voci di corridoio ad oggi non oggetto di smentite – secondo cui proprio l’edificazione del centro commerciale in oggetto sia stato uno degli elementi ostativi che hanno nei fatti prodotto lo stallo nell’esecuzione dell’opera.

Così come da valutare erano e sono anche le concessioni fornite ad un altro privato per la costruzione di un’area di rifornimento nei pressi di un corso d’acqua che sfiora l’ospedale Garibaldi Nesima che tra le tante zone alluvionate di Catania è quella che forse più ha sofferto le precipitazioni producendo nei fatti l’allagamento di tre reparti del nosocomio più grande del meridione d’Italia.

Altra scelta discutibile è quella relativa alle mura di cemento che nei fatti chiudono l’accesso dal porto alla Città.

Se letti sotto questa prospettiva, ovvi sembrano gli allagamenti che sempre con maggiore veemenza si verificano soprattutto nei pressi di piazza Alcalà.

Opere bloccate dalla burocrazia, scelte scriteriate, concessioni discutibili.

Per tutto questo senza esitazioni a nostro avviso sarebbe fondamentale uno studio dei fatti per migliorare il dibattito e, forse, accelerare le scelte politiche e le azioni amministrative.

Servirebbe invertire la tendenza, considerare finalmente in modo organico opere pubbliche che nei fatti divengono utili solo se coinvolgono l’intera area metropolitana partendo dalla città, spostandosi fino ai comuni sopra la cinta e giungendo alle pendici dell’Etna, servirà riconsiderare la bontà delle opere edificate e la possibilità di valutare come ancora utili quelle non implementate ma che si basano su progetti vecchi e forse poco efficaci ed efficienti se rapportati alle nuove tecnologie e alle importanti risorse messe in campo.

Serve immaginare il tutto anche considerando il cambiamento climatico con una tropicalizzazione resasi ormai strutturale, senza sottovalutare l’andamento dei parossismi vulcanici che nella loro crescente frequenza nei fatti complicano sempre più il lavoro dei sistemi fognari per lo smaltimento delle acque.

Non possiamo esimerci soprattutto dal rivedere l’intero impianto normativo e gli strumenti edilizi che nei fatti si basano su un’architettura legislativa e su piani regolatori della metà del novecento, dunque immaginati per una società diversa che implementava il modello delle città in espansione con lo spostamento verso le stesse dalle aree rurali.

Serve ricostruire un nuovo patto di convivenza tra il genere umano e l’ecosistema generale, si è cementificato rendendo impermeabili i terreni e costruendo barriere, con l’acqua le nostre Città in passato convivevano, oggi dopo un uso incosciente dei contesti vitali tornano a riappropriarsi con prepotenza legittima degli spazi originari.

Serve una profonda azione di monitoraggio nei confronti di un’amministrazione cittadina che riesce a dare concessioni edilizie persino in luoghi oggetto di tutela e vincolo da parte della soprintendenza, il caso della timpa di Leucatia insegna.

Così come importante sarà far sentire la propria voce ad una classe politica territoriale e no, che intende derubricare il tema del riuso e della riconversione dei beni abbandonati.

Basti pensare alle tre imponenti strutture ospedaliere dismesse sul nostro territorio (una delle quali già rasa al suolo) che solo nell’ultimo biennio sono diventate oggetto di dibattito da salotto, subendo passivamente gli inflazionatissimi progetti museali che sembrano esser divenuti il fine naturale di qualsivoglia struttura pubblica inutilizzata.

Bisognerebbe invece spingere al centro dell’agenda politica il futuro di beni pubblici, che se armonizzati con il contesto umano e strutturale in cui insistono, potrebbero nei fatti divenire la più grande opportunità di questo decennio.

È già tardi, ma non possiamo esonerarci dal provare a salvarci.

Serve soprattutto una nuova consapevolezza politica trasversale e diffusa, decidere di camminare insieme nella certezza che l’ecosistema troverà il suo nuovo equilibrio malgrado o grazie a noi e che in fondo tocca al genere umano tutto decidere se farne ancora parte.

Cogente è il bisogno di ammodernare le infrastrutture delle nostre città, nella necessità di rivalutare in modo organico e complessivo anche le esigenze sempre più stringenti in termini di sicurezza certo ma anche di mobilità senza tralasciare la necessità di rendere le città più “abitabili”, soprattutto nelle aree periferiche, mettendo in primo piano l’esigenza di un nuovo modo di intendere e concepire l’area urbana. A tutte queste istanze si è cercato di dare risposta negli ultimi anni con l’applicazione fumosa di concetto di rigenerazione urbana.

Ma Come avviene la rigenerazione urbana?

Spesso vengono millantati come interventi di rigenerazione il semplice abbellimento di una piazza o di un contesto, il mantra del modello di rigenerazione tanto in voga negli ultimi anni nella nostra città ma non solo è stato troppo spesso riconducibile al mero street art, un qualcosa che nel modello originario avrebbe dovuto esser marginale e che invece dalle nostre latitudini ha assunto un ruolo di centralità, così basta colorare un palazzetto e piantumare tre alberelli in una piazza per porre in essere un grande intervento di rigenerazione.

Rigenerare per noi è altro, è riappropriarsi degli spazi vuoti o in disuso, rivitalizzandoli in un’ottica di concentrazione dei punti essenziali della quotidianità mantenendo fede ad un nuovo modello abitativo dignitoso e di mobilità sostenibile.

Un’opera che potrebbe realmente diminuire gli spostamenti con mezzi privati e incrementare quelli pubblici al fine di snellire il traffico ed emettere meno inquinamento acustico e ambientale, è la metropolitana.

Catania vanta da oltre un ventennio uno dei mezzi di circolazione più all’avanguardia.

I lavori per collegare le varie aree cittadine interessano zone non ben servite da altri mezzi e potrebbero, in tal senso, essere un ulteriore anello di congiunzione tra periferia e centro cittadino.

Ma anche in questo settore non mancano problemi. Voglio portare una riflessione che riguarda i lavoratori della CMC, l’azienda che si occupa dei lavori metropolitani.

A tal proposito non possiamo esimerci dal palesare tutta la nostra preoccupazione per le sorti di questi dipendenti che da diversi anni si trovano in cassa integrazione, con la speranza che vengano presto risolti i problemi aziendali permettendo loro di tornare a lavorare e portare a compimento le nuove tratte della metropolitana che rappresenta la più importante opera infrastrutturale della nostra città.

Bisogna esser consci, inoltre, che l’opera metropolitana incide direttamente sui nostri diritti, sulla nostra qualità di vita, sulla quotidianità e sul benessere di ognuno di noi. Basti pensare che il modello di riferimento è quello ideato da Carlos Moreno che introdusse il concetto di città di 15 minuti per garantire ai residenti urbani di poter svolgere sei funzioni essenziali entro appunto 15 minuti a piedi o in bicicletta dalle loro abitazioni: vita, lavoro, commercio, assistenza sanitaria, istruzione e intrattenimento

Un modello dunque sostanziale che va ben oltre la mera e fumosa forma propagandistica.

Ma per poter riempire di vera sostanza un intervento è necessario che sia condiviso con e dalla la collettività attraverso il percorso di quella famosa partecipazione dal basso, nella consapevolezza che solo valutazioni attive di prossimità possono realmente contemplare le reali criticità e innalzare nell’agenza politica le reali e funzionali richieste di una collettività.

La storia però racconta altro, scelte urbanistiche calate dall’alto, senza alcuna valutazione sull’impatto reale delle stesse, perché nei fatti l’importante è sempre stato spendere i soldi e poco importa se si è pronti a tirare fuori dal cilindro un progetto di decine di anni fa magari ormai obsoleto e non rispondente alle attuali necessità, ciò che importa è spendere, se poi quell’investimento non produce effetto alcuno, nessuno se ne preoccupa.

E a questo modo di agire la nostra città è abituata, un modello di gestione con radici ben salde nel passato che oggi si pone in continuità con le recenti amministrazioni cittadine, con effetti però che date le congiunture storiche potrebbero segnare il punto di non ritorno per le nostre città.

Ed eccoci, quindi, giunti al PNRR.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, infatti, rappresenta un’importantissima opportunità per il nostro paese ponendoci addosso però non poche responsabilità dato che in buona parte verrà finanziato in deficit, ossia, più semplicemente con una dilazione dei costi scaraventata sulle future generazioni.

Da qui l’esigenza che quel debito protratto per il futuro possa quantomeno davvero incidere in modo significativo sulla vita delle nostre comunità.

Presupposti disattesi, però, ad esempio dai progetti che riguardano la realizzazione di due fabbricati da 32 alloggi ciascuno da costruire a Librino a completamento di un lotto edilizio di viale Moncada.

Si dà il caso però che Librino non desidera né necessiti di nuova edilizia popolare cosi come non lo richiede la storia di questo quartiere.

Nato nei fatti alla luce dei migliori propositi come un insediamento di case popolari e cooperative edilizie, il quartiere ha ormai acquisito i tratti del classico progetto inespresso, una incompiutezza che tocca non solo l’aspetto della progettazione urbana, ma forse e anche più aspetti sociologici ed ideologici. Mi spiego meglio: Librino avrebbe dovuto essere un luogo di riscatto, la culla dei diritti e della parità sociale. Librino oggi è, invece, il paradigma della ghettizzazione delle fasce più deboli, emblema della vanificazione di ogni possibilità di riemersione.

A colmare il vuoto lasciato colpevolmente dalle istituzioni ci hanno pensato con il sudore e l’impegno gli abitanti stessi del quartiere e le tante associazioni nate sul territorio o semplicemente impegnate su questo.

Rilevante è stato sicuramente la presenza storica della sede territoriale della CGIL trainata fortemente dalla nostra categoria, necessaria nel dar risposte alla richiesta di tutela dei diritti degli abitanti, sempre più asfissiati e mortificati dalla continua, ma infruttuosa ricerca di protezione e informazione sul mondo del lavoro e dell’abitare.

La Fillea in quel quartiere ci è sempre stata e anche negli ultimi anni ha lasciato il segno con il suo impegno concreto, ve ne racconto una tra tante.

È stata introdotta un’azione volta a far emergere le fragilità che hanno accompagnato la consegna dei lavori di riqualificazione di un grandissimo palazzo di edilizia residenziale pubblica.

Parlo del Palazzo di cemento: una ferita aperta nel cuore della nostra città sin dagli anni ’80, centro operativo della mafia che nelle previsioni avrebbe dovuto trascendere quelle logiche per ergersi a simbolo della vittoria dello Stato sulla malavita organizzata, ma oggi, nonostante abbia cambiato nome divenendo “Torre Leone”, quella ferita sembra non volersi rimarginare.

E anche in questo caso come in quello della gronda non potevamo criticamente far emergere con forza le nostre domande pretendendo le adeguate, ma mai ricevute risposte.

È stato davvero normale assegnare un appalto con un ribasso del 51%?

A circa 3 mesi dalla consegna dei lavori è normale aver riscontato le carenze strutturali testimoniate pubblicamente attraverso i nostri sopralluoghi?

Perché, pur avendo delle somme disponibili, così come più volte richiesto da Fillea e SPI, non sono mai iniziati i lavori nei piani bassi, non ancora oggetto di riqualificazione?

E ancora, perché non si pensa di destinare quei locali, oltre che alle associazioni presenti nel quartiere, anche ad una ramificazione dell’amministrazione pubblica, riportando il senso e la presenza fisica delle istituzioni dentro il quartiere così come richiesto attraverso una raccolta firme da noi strutturata e portata avanti proprio tra gli abitanti del palazzone?

Le famiglie che popolano quel palazzo dopo anni di attesa in graduatoria hanno oggi un tetto sopra la testa, in appartamenti però spesso piccolissimi in assoluto contrasto con gli standard di assegnazione delle case popolari che prevedono nei primi posti in graduatoria utili all’assegnazione nuclei familiari ampi producendo un’annunciata disfunzionalità nella tutela del diritto alla casa certo ma anche alla dignità.

Davvero, dunque, con più di 4 milioni di euro non sarebbe stato possibile fare di meglio?

Tante domande senza risposta e un’unica consapevolezza:

serve una maggior spinta propulsiva nella programmazione e implementazione delle opere pubbliche così come serve il controllo ex ante ed ex post dell’amministrazione.

Perché Librino, come l’intera Città, ha fame di lavoro e dignità, perché serve la presenza dello Stato in un quartiere abbandonato dalla politica e utilizzato come una sacca di voti utili per la prima elezione disponibile,

Affinché Torre Leone non torni ad essere il palazzo di Cemento.

Questa è una scommessa che la nostra Città non può perdere e un errore che non può esser ripetuto, per questo nei prossimi mesi punteremo la lente d’ingrandimento su un altro maestoso finanziamento che prevede la consegna di 144 alloggi distribuiti in due torri che potrebbero riprodurre le criticità che stanno accompagnando gli assegnatari di torre leone.

Scarsa concertazione e programmazione, un buco nero nella gestione della cosa pubblica catanese che si ripropone in ogni opera così come rilevato anche nell’utilizzo dei beni confiscati alla mafia soprattutto in concomitanza dell’erogazione dei 300 milioni di euro da destinare alla riqualificazione degli stessi.

Qui ci approcciamo ad un’altra significativa area di attività degli ultimi anni della nostra struttura. Anche questa connessa e legata a doppio filo nella trama di disfunzione a catena che colpisce il nostro territorio.

La Fillea da anni in cammino con la CGIL e l’Auser è in campo per la rivendicazione dei diritti diffusi. In questa lotta al diritto non potevamo non incrociare l’Arci e i Siciliani Giovani i quali sono dediti da tempo a puntare i riflettori sulla gestione dei beni confiscati alla mafia.

Un incrocio significativo da cui è nata una proficua collaborazione sancita in un luogo emblematico: la casa di Nitto Santapaola. Per chi non lo sapesse, la casa di uno dei boss più potenti a Catania, per tanti troppi anni è stata centro direzionale della malavita organizzata.

Quel luogo di morte può essere un punto di ripartenza se e solo se insieme a tutti i luoghi di sofferenza verrà riconsegnato dopo anni di abbandono alla collettività. È questo l’unico modo per combattere la Mafia e perché no, anche per creare lavoro pulito e dignitoso.

Noi eravamo lì per dire che quel giorno ci eravamo ripresi casa loro e di quelle strutture ne avremmo riprese tantissime.

Così oltre alla denuncia di un modello di gestione non virtuoso passammo alla proposta secondo quel modello spesso invocato in questo testo: la partecipazione.

Da lì nasce allora la proposta, nata da un confronto assiduo e proficuo con svariate anime della città di riqualificare un bene confiscato alla mafia per riconvertirlo in dormitorio per i senza fissa dimora.

Un’idea diffusa che nasceva da un’esigenza reale dato che la città di Catania era l’unica area metropolitana d’Italia a esser sprovvista di un dormitorio e l’immobile da noi individuato sito in Via Calatafimi rappresentava e continua a rappresentare il simbolo di cosa non dovrebbe esser un bene confiscato alla mafia dati i decenni di totale abbandono dello stesso.

La nostra proposta non fu accolta benevolmente, ma ci piace pensare che la riqualificazione di un altro bene confiscato alla mafia destinato da lì a breve proprio ai senza fissa dimora sia nata da quel grido di allarme.

Un’attività continua sui diritti sociali senza, però, perder mai di vista anche quelli civili, perché noi immaginiamo il mondo delle tutele come un grandissimo meraviglioso, ma fragile castello di carta, basta sfilarne una per far cadere giù tutto.

Rivendichiamo con forza allora la testa del corteo del Pride cittadino affidata proprio a Fillea ed Arci alla guida di un mezzo della Geotrans, un’azienda confiscata alla mafia.

Altro importante contributo fattivo ed organizzativo è quello che ci ha visti impegnati nella manifestazione per la Pace che qualche settimana fa ha riempito le strade della nostra città,

ed ancora, la significativa partecipazione di lavoratrici e lavoratori edili nelle giornate passate al porto di Catania in presidio permanente per invocare ad alta voce la liberazione di fratelli e sorelle che dopo aver attraversato le atrocità della Libia e i pericoli del mare erano rimasti incagliati nelle reti della più becera propaganda elettorale.

Così come siamo fieri dell’aver donato 10 computer corredati da stampanti all’istituto comprensivo San Giovanni Bosco perché fare sindacato significa anche questo, quando ne esistono le condizioni, bisogna fare e non solamente parlare, soprattutto in tema di formazione che è sempre più necessaria ed è per questo che abbiamo scelto una scuola pubblica: perché riteniamo che sia questa la sede naturale in cui debbano fiorire coscienza, cultura, formazione, crescita. Perché è da qui che nasce il cittadino, è qui che si formano gli uomini del domani.

E proprio perché, come vi dicevo, bisogna fare, la Fillea ha avviato una collaborazione con il Dipartimento di Medicina clinica sperimentale per disporre un gruppo interdisciplinare attrezzato per lo studio delle tematiche relative agli aspetti legati al tema della sicurezza negli ambiti di lavoro.

Ma anche in questo campo, nonostante l’impegno da tutti profuso, le manchevolezze delle istituzioni latitanti hanno prodotto notevoli disagi.

Ed è proprio sul tema dell’edilizia scolastica che la Fillea in concertazione con la Camera del lavoro di Catania, la flc e le associazioni studentesche nei prossimi mesi accenderà i riflettori:

Penso che qui tutti abbiamo bene impresse nella nostra mente le immagini dei tetti crollati a scuola, per dirne uno, quello del Boggio Lera, così come le lezioni fatte nelle pubbliche piazze nell’impossibilità di fruire delle strutture scolastiche.

Tutto questo sfacelo riecheggia pesantemente nei nostri menti e nelle nostre coscienze. Lì ci stanno i nostri e i vostri figli, lì, durante un crollo potrebbe esserci uno di loro.

Rimanendo sull’asse scuola e formazione introduciamo un’altra area di attività di cui rivendichiamo con forza la paternità.

Nei prossimi mesi saranno avviati dei protocolli d’intesa tra l’ente scuola edile e alcuni istituti tecnico professionali per colmare quel gap insito nella scuola pubblica italiana ad ogni livello, ovvero la mancanza di professionalizzazione pratica da affiancare a quella teorica, permettendo in tal modo ai giovani che si affacciano per la prima volta al mondo del lavoro di acquisire anticipatamente tutte quelle competenze utili all’esercizio della futura professione.

Nello specifico il protocollo prevederà che gli alunni del quarto e quinto anno possano specializzarsi attraverso il nostro ente di riferimento ottenendo così attestati e reale professionalizzazione in singole attività come ad esempio il movimento terra, pontisti, scalpellini, piastrellisti ecc…



Battaglie e progetti sempre delineati dentro il perimetro della lotta alla criminalità organizzata che proprio in questo periodo in assenza di serrati controlli attraverso le copiose quantità di denaro immesse nel circuito economico potrebbe destrutturare dall’interno ogni speranza di vera rinascita, serve farlo però insieme senza paure né tentennamenti.

Ci viene in mente allora l’ultima operazione antimafia che ha usufruito della presa di posizione e della cassa di risonanza della Fillea di Catania e Caltagirone, di quella regionale e della Filt provinciale nel silenzio generale di tutti gli altri attori politico-sociali

Qualche mese fa, infatti, Catania, Siracusa e la zona del calatino si sono svegliate con 56 misure cautelari.

L’operazione Agorà, nata dall’inchiesta Chaos, ha svelato un malcelato segreto di pulcinella.

Un doppio triangolo perfettamente sovrapponibile: da una parte il territorio catanese, quello siracusano e quello Calatino, dall’altra il sodalizio tra politica, imprenditoria e mafia.

È all’interno di questo territorio e di queste relazioni triangolate vengono risucchiate risorse pubbliche e legalità.

Il quadro che ne venne fuori è sconcertante: l’indagine ha consegnato la fotografia di un modello mafia-imprenditoria-politica fatto di aziende costrette a piegarsi, schiacciate da altre manifestamente colluse che godono di protezione e favori. Società che nascevano ad hoc, bandi creati su misura, imposizioni- compreso il tentativo di mettere le mani sul sistema delle forniture anche in attesa che partano i lavori del PNRR.

Dinnanzi a sfide tanto complesse serve ripartire da noi, dall’essenza del sindacato di strada che ha da sempre rappresentato l’anima della Fillea e serve farlo insieme anche agli altri attori sindacali di settore.

Abbiamo il dovere di ritrovare la piena e condivisa unità sindacale superando le recenti e solo in parte superate ferite.

Ce lo impone il sistema della bilateralità e ce lo ricordano gli importanti risultati legislativi raggiunti in questi ultimi anni,

Ce lo chiedono gli uomini e le donne che rappresentiamo e che invocano a voce alta un ulteriore passo in avanti in termini di diritti e dignità, nella consapevolezza che solo un fronte comune può incidere concretamente ed in modo significativo al cuore dei problemi,

così come ad esempio manifestato nell’incessante lavoro che ha portato ai rinnovi del contratto nazionale e di quello integrativo provinciale producendo in media un aumento nelle buste paga di circa 160 euro mensili oltre all’innalzamento ed ampliamento delle prestazioni erogate dalla cassa edile.

Un’unità da ritrovare dentro il perimetro sindacale ma anche fuori dallo stesso agendo da motore per la ricomposizione di quei pezzi di un mondo politico troppo spesso autoreferenziale e distante da quella sintesi tra posizioni differenti che dovrebbe invece esserne la funzione cardine.

Una sofferenza relazionale insita in tutta la società in senso ampio,

sfiancata dall’individualismo feroce.

Le sfide dei prossimi mesi saranno impegnative, la povertà dilagante e lo svuotamento del senso delle istituzioni delineati all’inizio del mio ragionamento peseranno sempre più sulle sorti del nostro paese,

il richiamo al fascino dell’uomo forte solo al comando ne è la fisiologica conseguenza, non possiamo più sottacere.

Abbiamo il dovere di difendere l’architrave di diritti conquistati sul campo e il potere di acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori nella consapevolezza risoluta che solo così riusciremo a tutelare non solo il mondo del lavoro, ma anche la forma di stato repubblicana e parlamentare così come ci fu lasciata in dote, non senza enormi sacrifici, dai nostri padri costituenti.

Ed è rimanendo nel paradigma dei padri costituenti e recuperando il tema calcistico che ha dato inizio a questa relazione, che mi appresto a concludere invitandovi a ricevere nei vostri cuori le immagini di Pertini durante la trionfale cavalcata della nazionale italiana ai mondiali di Spagna del 1982.

Un grande uomo, simbolo del socialismo democratico, che ha combattuto per la riunificazione del paese prima e delle sinistre poi, oltre a rappresentare degnamente le istanze di quel popolo che oggi più che mai sembra aver smarrito il senso delle istituzioni e la fiducia nei confronti della politica.

Diceva: “Io credo nel popolo italiano. È un popolo generoso, laborioso, non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il paradiso in terra. Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo.”

Che le sue parole siano allora da stimolo per il futuro riecheggiando nelle nostre menti e guidando le nostre future azioni:

Gli affamati ed i disoccupati sono il materiale con il quale si edificano le dittature.”

Ed è meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le dittature.”

COMPAGNI AL LAVORO, ALLA LOTTA, ALLA DEMOCRAZIA”.

Vincenzo Cubito, Segretario Generale Fillea Cgil Catania

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