A Portella non fu solo lotta di classe
Reazione antiproletaria, ma anche un disegno politico preciso
Il fatto storico esige una conoscenza il più possibile articolata, strutturata sulla individuazione delle così dette cause prossime e quelle remote, nonché dei contesti spazio-temporali diversamente ampi.
Certamente hanno ragione gli storici di scuola marxista che hanno spiegato la strage di Portella della Ginestra, ove furono massacrate 11 persone e ferite una trentina, a considerarla un classico esempio di reazione antiproletaria, perfettamente leggibile all’interno del modello materialistico e dialettico.
Ma, come detto, concorsero varie cause la cui lettura ci porta a considerare quella strage il prodotto di una reazione, oltre che sociale e antiproletaria, anche un disegno politico e strategico tendente ad impedire un qualsiasi cambiamento progressivo dell’economia, della società e della politica in Sicilia.
Non c’era bisogno di provocare una strage per bloccare il movimento contadino: già numerosi sindacalisti ed attivisti erano stati tolti di mezzo dagli agrari e dalla mafia, altri sarebbero stati eliminati nei mesi e negli anni successivi per impedire la piena attuazione dei Decreti Gullo sulla distribuzione delle terre incolte del latifondo alle cooperative contadine.
A Portella, invece, il linguaggio dei mitra in dotazione agli americani e alla Decima Mas voleva significare solo una cosa:”ora basta!”.
Ora basta giocare alla democrazia, alle votazioni libere, ora basta con le assurde pretese di assegnare ai rappresentanti eletti dalle classi popolari il compito di governare la Sicilia. Appena dieci giorni prima, il 20 aprile, si erano svolte le prime elezioni dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Ma la strada intrapresa da Badoglio, da Bonomi e poi da De Gasperi era un’altra e la Sicilia non poteva andare per suo conto. Era la strada rassicurante di una sostanziale continuità e di una inesistente epurazione o, se si vuole, sostituzione dei responsabili della sicurezza e dell’ordine pubblico: ben 62 prefetti in servizio durante il fascismo rimasero al loro posto.
La strada intrapresa era quella indicata dagli USA che trovarono in Pio XII un sicuro ed affidabile alleato; la strada fu allora percorsa dai democristiani siciliani e dai loro consoli, Scelba e Mattarella, che chiesero ripetutamente a De Gasperi di scaricare comunisti e socialisti dal governo.
Proprio come aveva scritto il Segretario di Stato USA, George Marshall, in un messaggio personale e segreto inviato a De Gasperi per il tramite dell’ ambasciatore a Roma James Dunn.
I recenti studi di Giuseppe Casarrubea sugli atti del processo di Viterbo, nonché sulle carte desecretate dell’archivio statunitense e sugli atti delle relazioni Cattanei della Commissione d’inchiesta sulla mafia e della relazione Pellegrino sulle stragi delineano un quadro in cui compaiono progetti di restaurazione fascista promossi dalla Repubblica Sociale di Salò con il piano Pavolini.
E allora è possibile ricostruire una fitta trama di fatti, un elenco di nomi, una cronologia ricca e articolata in cui segnare il passaggio e la presenza di centinaia di fascisti inquadrati in formazioni paramilitari a supporto dei resti dell’EVIS e del moribondo movimento indipendestita, stritolato dal contesto internazionale e ormai completamente al servizio di fascisti e mafiosi.
La mafia, appunto, che con Lucky Luciano tratta del ruolo che essa dovrà svolgere nella gestione del potere in Sicilia e del supporto nella lotta al comunismo che lo Stato può tollerare solo all’opposizione.