giovedì, Novembre 21, 2024
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Mafia accademica

“Buongiorno Professore, Le chiedo scusa per il disturbo”. Iniziano spesso con questo Vossia le mail che ricevo dai miei studenti universitari per chiarimenti su programmi, argomenti e calendari didattici. Un incipit che vuole essere solo una forma di educazione, ma in realtà nasconde una natura reverenziale, perché ancora oggi chi sta dall’altra parte della cattedra è visto come Vostra Signoria.

Un campanello d’allarme che è il punto di inizio di un rapporto docente-discente che nel tempo, soprattutto se in un percorso orientato verso la carriera accademica, potrà degenerare in forme vassalle. Perché il sistema di reclutamento degli atenei italiani si regge in molti casi su meccanismi di subordinazione e fidelizzazione degli studenti, già durante il lavoro per la stesura della tesi di laurea, con buona pace di chi verrà dall’esterno o chi, dall’interno, seminerà nel tempo un germe meritorio ed indipendente. Sistema accettato e condiviso dalla comunità accademica tanto che nessuno si permetterà di recidere il rampollo altrui se non si vuole che venga reciso il proprio. Il risultato è un giardino di fiori attentamene selezionati e generati come per autogamia della pianta progenitrice.

 “Il sistema – scriveva sul Fatto Quotidiano Filippomaria Pontani, ordinario diCa’ Foscari di Venezia – non differisce da quello mafioso in alcuni tratti salienti: verticismo, vasta connivenza, criterio di fedeltà, divisione in famiglie, intimidazioni, omertà”. Mafia accademica quindi: ma è davvero così?

Qui non esiste il rito della punciuta, ci si ritrova dentro e basta. Da Cosa Nostra una volta affiliati non si può più uscire, da questo sistema sì e se non lo si accetta o lo si contesta si è vittima di una raffinata lupara bianca: l’isolamento. A differenza che nella mafia nel sistema non ci sporca mai le mani, non occorre fare alcuno sgarbo al disturbatore, perché si va avanti se il vento soffia orientato sulle proprie vele, se non c’è vento è impossibile avanzare. Una forte similitudine però c’è: la famiglia. È identificabile nel gruppo di ricerca al cui vertice siede un docente di I fascia, il professore ordinario, da cui la famiglia prende il nome ma che in questo sistema è più comunemente conosciuto con il termine barone. All’interno della famiglia i tesisti, dottorandi, assegnisti di ricerca, ricercatori e professori di II fascia formano la decina sotto il controllo del solo rappresentante.

La formazione di gruppi di ricerca guidati da professori di II fascia o ricercatori, indipendentemente dal talento e dall’età, è una forma di impertinenza da scoraggiare (isolare, n.d.r.), perché metterebbe in discussione l’impianto verticista del sistema. L’ingresso nella famiglia generalmente coincide con l’inizio dell’internato per la tesi di laurea. Si entra studenti di tesi ma non tutti diventano soldati. Lo si comprende un momento prima e un momento dopo il concorso per il dottorato di ricerca: il candidato interno scelto dal capo della famiglia risulterà quello meritevole, tutti gli altri aspetteranno un turno (un anno) oppure dovranno cambiare aria.

Qui c’è la prima grave corresponsabilità dello Stato: pochi posti e mal pagati. La retribuzione di un dottorato di ricerca è di 1100 euro per dodici mensilità con il quale nella maggioranza dei casi bisogna affrontare le spese di studente fuorisede, con affitti che in molte città sfiorano i 500 euro per una stanza. Questo, unito ad un percorso professionale che si prospetta lungo e precario, ha portato ad un crollo di più del 40% dei posti di dottorato di ricerca banditi nell’ultimo decennio: in sintesi, il mestiere della ricerca accademica va lentamente scomparendo.

Il cuore del sistema è il dipartimento. Questo mandamento quando si riunisce nel suo consiglio non prende decisioni, piuttosto ratifica decisioni già prese dai capi famiglia in altre sedi e contesti. In un consiglio di dipartimento il 99% delle votazioni è approvato all’unanimità. Risultato che si ottiene attraverso un meccanismo di funzionamento molto semplice: il prodotto pronto. Facciamo l’esempio di una procedura selettiva per un concorso, che sia da ricercatore a tempo determinato piuttosto che da docente di I o II fascia. Ebbene, sia nei criteri di selezione del bando, dove alla voce “attività di ricerca prevista” viene cucito l’abito su misura ad uno dei candidati, che per la nomina della commissione giudicatrice, viene presentato in sede di consiglio di dipartimento un documento già compilato da approvare. Contrari? Silenzio. Astenuti? Silenzio. Il dipartimento approva all’unanimità. È chiaro che nessuno, tra ricercatori e docenti, esprimerà un parere o un dissenso in quei silenzi. Farlo sarebbe uno sgarbo al direttore del mandamento e ai capi delle famiglie e si percepirebbe sulla pelle un soffocante senso di isolamento: in sintesi, un irreparabile danno alla propria carriera. Stessa cosa se, convinti dei propri requisiti, ci si presenterà ad un concorso in cui il sistema ha già orientato la nomina del vincitore e non si è disposti a ritirare la domanda. Ma si può salire ancora, da questo raffinato mandamento si può arrivare fino a delineare una commissione se l’ateneo è infestato da più di un dipartimento che lavora con le regole del sistema.

Soldati, decine, famiglie, mandamenti e commissione, gli elementi ci sarebbero tutti, ma io dico che non è mafia. Ha i tratti fenotipici della mafia, ma non il genotipo. Perché non ci sono interessi economici a guidare le mani degli affiliati al sistema, semplicemente una pulsione per il potere. Per fare cosa? Avere il controllo delle carriere. L’associazione a delinquere di stampo mafioso, art. 416 bis del codice penale, non è quindi applicabile. Ma se togliamo il bis rimane comunque l’associazione a delinquere: è il caso di Catania

 Dopo la chiusura delle indagini dell’inchiesta “Università bandita” la Procura di Catania contesta a due ex rettori, Francesco Basile e Giacomo Pignataro, all’ex prorettore Giancarlo Magnano San Lio e sette direttori di Dipartimento l’associazione a delinquere. È la prima volta che la magistratura colloca il sistema di reclutamento di un ateneo nel quadro di un’organizzazione delinquente, verticista e collusa: è un fatto epocale.

La legge 240 del 2010 (Riforma Gelmini) doveva riformare il sistema di reclutamento degli atenei italiani limitando le università nell’attuazione di meccanismi non meritocratici. Concorso nazionale prima, per avere l’abilitazione scientifica a docente di I o II fascia, e concorso locale poi, bandito da ogni ateneo. L’abilitazione scientifica doveva servire a selezionare meritocraticamente i candidati eleggibili al ruolo di docente, ma a parametri oggettivi come il superamento di determinati indici bibliografici sono stati poi aggiunti alti criteri che autorizzano le commissioni (composte da soli docenti di I prima fascia) ad una più libera selezione dei profili da abilitare. Il resto può essere accomodato localmente alla voce “attività di ricerca prevista” nel bando del concorso promosso dall’ateneo.

Come se ne esce? Fortunatamente non tutto è sistema, anzi, c’è una parte più che significativa del mondo accademico che non segue queste logiche. Tuttavia, è necessario togliere ogni libero arbitrio ai docenti nell’ambito del reclutamento. E questo sarebbe solo il punto di inizio. Nessuna riforma universitaria che non obblighi i docenti ad attenersi ad un protocollo di valutazione quantitativa e solo quantitativa dei candidati potrà veramente funzionare. E va applicato sia a livello nazionale (abilitazione scientifica) che locale (concorso bandito dall’ateneo), eliminando ovviamente la possibilità di vestire il bando sul profilo di un determinato candidato.

Tutti gli altri tentativi, compresa la riforma Gelmini, in cui il sistema è coinvolto nell’elaborazione o nell’attuazione di una riforma, sarà solo una periodica muta del gattopardo. Perché il sistema sa bene che per fare in modo “che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Sta per cominciare un nuovo anno accademico e ci stiamo giustamente preoccupando degli studenti che rischiano di rimanere ancora fuori dagli atenei per la pandemia. Forse, però, è il momento di incominciare a chiedersi cosa rimane dentro.

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